Maria, straniera nel suo Paese insultata perché è italiana

Hanno mille ragioni i bambini somali e pakistani, kosovari e boliviani: non è facile integrarsi a scuola, in Italia. Non è facile nemmeno per i bambini italiani, in una certa Italia che sta sopra Trento, appena prima dell'Austria. Una zona talmente felice d'essere Italia, da farsi chiamare tassativamente Sud Tyrol. Lì è già complicato fare gli italiani da adulti. Farlo anche da bambini, può diventare un inferno.
Bisognerebbe che tante commissioni parlamentari, anziché sprecare tempo nei loro studi sull'autonomia dell'Alto Adige, salissero un giorno a Villandro, frazione di Chiusa, un migliaio di abitanti a straripante maggioranza tedesca. Non siamo nemmeno tanto su e tanto confinanti: siamo ancora nella valle dell'Isarco, cioè in un luogo ancora molto prossimo all'Italia italiana.
Se studiosi e politici salissero a Villandro, potrebbero fare due parole con una bambina di undici anni, che ha da poco terminato le scuole elementari. Lei certamente saprebbe ben spiegare che cosa significhi ostinarsi ad essere italiani, là dove essere italiani è sempre più pesante e complicato. Non a caso, sia detto per inciso, si può tranquillamente parlare di etnia in via d'estinzione: un censimento dopo l'altro, cioè l'appuntamento in cui la legge prevede che gli abitanti scelgano se essere di etnia tedesca o italiana, gli italiani risultano sempre meno. Persino gli italiani-italiani scelgono d'essere tedeschi: per vivere più tranquilli e più sereni, in una terra e tra gente che faticano a sopportarli.
Dovendola difendere da una scomodissima notorietà, chiameremo questa bimba col nome Maria, uno dei nomi più italiani d'Italia: perché si sappia almeno che è figlia (unica) di due genitori entrambi italiani, papà ufficiale dell'esercito e mamma impiegata. Il problema di Maria, in fondo, è tutto qui. Entrando a scuola, durante le elementari, si porta dietro ogni giorno il suo albero genealogico, cioè la sua colpa imperdonabile.
«Purtroppo - spiega la mamma - a Villandro non esiste scuola italiana. C'è solo questa, di lingua tedesca: abbiamo iscritto Maria, che sa entrambe le lingue, mai più pensando che sarebbe andata così».
Forse è bene ricordare che in questo luogo singolarissimo della nostra nazione esistono regole altrettanto singolari, strappate dagli ex-austriaci a forza, buttando giù tralicci e provocando sommosse, fino alla resa di Roma: in cambio della pace sociale, privilegi e denaro. Tra i privilegi, le scuole con la prima lingua tedesca. L'italiano viene studiato da seconda lingua: come a Vicenza e a Lecce si studia l'inglese. Per la verità sono previste anche scuole a prima lingua italiana, ma col passare del tempo e con la sempre più marcata riduzione della comunità tricolore, le classi si sono svuotate. E tante scuole hanno chiuso. Di istituti con prima lingua italiana ne esistono sempre meno. Ormai, una rarità. Nonostante queste valli, sarebbe utile non dimenticarlo mai, ai nostri nonni siano costate orrori e sangue.
Maria, dunque, finisce giocoforza in una scuola tedesca: è l'unica, nel suo villaggio. Come dice la mamma, nessuno può immaginare. Invece. «Invece, si rivela un inferno. Cominciano in terza, appena diventano più grandicelli. I compagni la chiamano «walsche», una parola intraducibile, ma dal chiaro significato sprezzante. Significa sudicio, vergognoso, disgustoso. Via via, sempre peggio: una volta la prendono in tre e la picchiano...».
Maria comincia a soffrire. La sua sofferenza? Essere italiana in Italia. La stessa maestra di italiano, un giorno, segnala alla mamma che la ragazzina non rende come potrebbe. La mamma rivela il problema: «Maria usa il meno possibile l'italiano, lo nasconde. Vuole evitare che la notino e gliela facciano pagare».
La scuola può essere un luogo bellissimo e un'età indimenticabile. Per Maria è solo un calvario interminabile. Ad un certo punto non vuole nemmeno più andarci. Non ne può più di sentirsi «walsche», d'essere accolta come sporca e puzzolente. Quando la mamma chiede aiuto alle maestre e agli altri genitori, perché il comportamento di certi ragazzini venga arginato, riceve due risposte: le insegnanti non sanno bene cosa dire, i genitori le mettono giù il telefono.
«Anch'io - testimonia la mamma - da piccola avevo vissuto qualche difficoltà. Ma mai a simili livelli. Allora però eravamo in parecchi italiani: c'erano figli di ferrovieri, di carabinieri, di finanzieri. Adesso, a forza di chiudere caserme e stazioni, siamo rimasti quattro gatti. E si fa sempre più dura».
La parte italiana del Sud Tyrol, ormai ridotta all'osso e all'esasperazione, parla apertamente di pulizia etnica. Ovviamente, qualcosa in famiglia devono spiegare anche a Maria. Almeno chiarirle il perché, di tanto risentimento. L'antica appartenenza all'Austria, la guerra che hanno perso, le nostalgie tirolesi, l'impossibilità - o la poca voglia - di diventare italiani: anche dopo tre o quattro generazioni...
Niente, Maria non comprende perché mai debba vivere tanto male nel suo Paese. Glielo spiegassero da Roma, una buona volta. Nell'attesa, ritrova un po' di speranza verso la fine della quinta, cioè solo negli ultimi mesi.

Dovendola iscrivere alle medie, la mamma le sottopone l'alternativa: a Chiusa, cinque chilometri da casa, ancora in una scuola tedesca, oppure a Bressanone, quindici chilometri di strada, però in un istituto italiano. Non c'è esitazione: meglio allungare il viaggio, ogni giorno, per cinque anni, ma ritrovare la serenità.
Così piccola, già così disincantata: Maria ormai sa benissimo che il suo Paese è molto lontano.

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