Mascia Musy: «Ora con la Tamaro poi con Tim Burton»

Come il compianto Aldo Trionfo era considerato, negli anni Settanta, il più francese dei nostri registi, ora Mascia Musy, di madre slava e padre italianissimo, può a buon diritto fregiarsi di un'etichetta analoga. Che pressappoco suona così: è la più parigina delle nostre attrici con quel viso da monella maliziosa che a tratti si muta in una piccola smorfia dolorosa, in bilico tra la supplica e la preghiera. Glielo dico, e la prima risposta che ottengo è una franca risata. «Crede davvero a ciò che mi dice?», inquisisce curiosa. «Eppure, più che monella, in scena finora sono stata una creatura dell'ombra, per non dire del dubbio. Come la Nina del Gabbiano di Cechov o l'Anna Karenina che Nekrosius ha tratto dal capolavoro di Tolstoj…». Già Nekrosius, uno dei più grandi registi del mondo che nutre per lei un'autentica adorazione. O sbaglio? «Via, via: parlare di adorazione è un po'troppo. Diciamo piuttosto che le il mio puntiglio e la sua cura maniacale del dettaglio, del particolare a tutto tondo, si sono per fortuna perfettamente amalgamati, come accade in cucina quando si prepara un buon soufflé». Va bene, non voglio contraddirla. Ma adesso che è tornata ad altri impegni coi nuovi registi della nostra scena non ne sente la nostalgia? «Allude a Emanuela Giordano con la quale da un anno vado in giro per l'Italia con Love di Susannna Tamaro?». Certo, sono qui per questo, dopo averla ammirata al Teatro Parenti dove è di scena fino a domenica 28. Non è un bel salto passare dalle mani di un intellettuale lituano al mondo intimista della scrittrice di Va dove ti porta il cuore? «Ma niente affatto, mi creda! Anzi, il personaggio che ora porto in scena ha molti punti di contatto con l'universo malinconico di Cechov, il mio autore preferito». Può spiegarsi meglio? «Vede, la storia di Love che non è un monologo, ci tengo a sottolinearlo, ma un racconto che io come un menestrello del Medioevo propongo al pubblico nelle vesti di una favolista che corre col suo messaggio di casa in casa, è una vicenda esemplare della solitudine femminile». Ossia? «Love narra la spaventosa vicenda di Vesna, bambina rom appena uscita dall'infanzia che, chiusa in un sacco nascosto tra due balle di fieno, viene trasportata lontano dalla sua casa e dai suoi affetti in un appartamento anonimo e disadorno. Dove, quando solo comincia a mormorare le prime parole, viene iniziata alla mendicità. Una condizione terribile, senza vie d'uscita». Che si conclude tragicamente? «Purtroppo sì. Dato che, solo a pochi anni di distanza, nella pubertà incontra un finto padre putativo che prima ne approfitta sfruttandola e poi addirittura la violenta lasciandola più sola e abbandonata che mai. Un'umiliata e offesa, direbbe Dostoevskji». Ha parlato di questa storia con Nekrosius? «Gli ho inviato il testo in francese. E lui, schivo com'è, mi ha ringraziato definendolo, più che poetico, straziante. Per questo, ho deciso di non abbandonarlo. Anche se mi attende un film e poi, ma non è ancora sicuro, un ruolo maschile in un classico del teatro». Può spiegarsi meglio? «Il film è, strano a dirsi, una prosecuzione del discorso cominciato con Love dato che tratta della crudeltà che regna nel mondo della danza. Mentre il classico…». Già, cos'è? «Non le dico il titolo per scaramanzia. Ma provi a indovinarlo. E'la storia di un ricco signore, beffato in modo ignobile dal suo servo, il cui nome è quello del più fastidioso degli insetti che ci svolazzano attorno nei giorni afosi dell'estate. Ha capito di cosa si tratta?» Sì, ma non la tradirò. A meno non ci sia costretto. «Ora sono io che la libero dal dubbio: se accetto, sarò Mosca al seguito di Volpone.

Un bel salto non le pare?» Come se Gelsomina, con le ali ai piedi, finisse nel mondo incantato di Alice. A proposito, è vero che prima o poi la vedremo girare con Tim Burton? «Ssst! Non lo dica a nessuno, per ora è top secret».

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