Cronaca locale

Mezzo secolo fa, la notte delle stelle del jazz

Brani raffinati che poi sarebbero diventati celebri nei dischi e nei concerti, come «Django», «Fontessa», «Concorde» e tanti altri

Franco Fayenz

Qual è stato il primo grande anno del jazz a Milano? Il 1956, non c’è dubbio. Dalle nostre parti arrivarono, uno dopo l’altro, Chet Baker, non ancora preda della droga al punto da farsi arrestare nel bagno di una stazione di servizio, come gli accadde qualche anno più tardi nei pressi di Lucca; il cantante Big Bill Broonzy; il sestetto di Gerry Mulligan, del tutto separato da Baker con il quale Mulligan aveva avuto un alterco furioso. E poi la band di Lionel Hampton, la favolosa orchestra di Stan Kenton che ritornò dopo i trionfi del settembre 1953 al Teatro Lirico, e il complesso tradizionale del trombonista Kid Ory. Si trattava di «vero jazz». I tempi delle contaminazioni erano ancora lontani.
Tuttavia, il concerto ancora oggi più ricordato e celebrato del 1956 è quello del 22 novembre al Teatro Manzoni, intitolato Birdland ’56. Il cast artistico era da fantascienza: c’erano il gruppo di Miles Davis, il sassofonista Lester Young accompagnato da una sezione ritmica francese, Bud Powell al pianoforte solo e infine il Modern Jazz Quartet. Fatta eccezione per Lester Young, nessuno degli altri aveva suonato prima di allora in Italia. E purtroppo, nessuno di loro vive ancora. Una simile riunione dei più illustri musicisti del jazz moderno non poteva essere opera che del migliore impresario, produttore discografico e scopritore di talenti che la musica americana abbia mai avuto, Norman Granz.
Chi ebbe la fortuna di esserci cita ancora il pubblico assai folto, eterogeneo, formato da intenditori ma anche da sportmen, da belle ragazze e da musicisti italiani che oggi, in casi analoghi sebbene non di questo livello, brillano per la loro assenza. Ci furono applausi entusiastici ma (vedi caso) senza fischi all’americana e senza urla, ululati e battiti di piedi. Significa che il concerto fu davvero stupendo e seguito con profondo interesse.
Eppure, non tutto andò per il verso giusto. Se ne accorsero, eccome, gli organizzatori (e anche i più avveduti fra il pubblico). Miles Davis, quarantenne, stava elaborando sulla tromba il timbro siderale della maturità; ma nello stesso tempo si comportava con pesante arroganza - una sorta di razzismo alla rovescia - che non era in realtà nel suo carattere, tanto è vero che dopo i suoi malanni degli anni Ottanta diventerà affabile e gentile. Lester Young suonò in modo affascinante, in un intervallo lucido della depressione che avrebbe finito di ucciderlo nel 1959. Bud Powell stava molto male, ma erano talmente straordinarie la tecnica e l’espressività di cui era dotato che se la cavò abbastanza bene. Dopo il concerto, vendette gli autografi che gli venivano richiesti contro altrettanti bicchieri di birra (e ne firmò moltissimi).
I veri trionfatori sotto ogni aspetto, musicale e umano, furono i magnifici quattro del Modern Jazz Quartet: John Lewis al pianoforte, Milton Jackson al vibrafono, Percy Heath al contrabbasso e Connie Kay alla batteria. Stupirono per la disciplina d’insieme, frutto evidente di una rara intesa fra loro e di una devozione per il quartetto che avrebbe dato a lungo esiti eccezionali. Il pubblico ascoltò in perfetta concentrazione i contrappunti raffinati e i brani che poi sarebbero diventati celebri nei dischi e in altri concerti, come Django, Fontessa, Concorde, Vendome e tanti altri.
Questo diletto dello spirito - per restringere l’ottica all’Italia - dopo quell’indimenticabile incipit milanese del 22 novembre 1956 durò 39 anni. Fu proprio in Italia, nel Teatro Regio di Torino, che il 4 dicembre 1995 John Lewis annunciò sommessamente ai giornalisti, fra le quinte, che il Modern Jazz Quartet non avrebbe suonato più.

Non gli credette nessuno, ma purtroppo era vero.

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