«Mi disintossico dai Coldplay con il mio blues»

«Il gospel e il soul sono delle braccia, ma il blues è la madre di tutte le musiche»

Più che d’amore, l’ultimo tour di Zucchero è un’overdose di chilometri. Sono circa 300mila quelli che il bluesman emiliano ha percorso nell’ultimo anno e mezzo: cinque volte il giro del mondo, prima di regalarsi una parentesi conclusiva tutta italiana. Stasera la tappa al Palalottomatica, poi ancora qualche data in calendario, infine arriveranno le meritate vacanze. «Non vedo l’ora di trascorrere il Natale con tutta la mia tribù, a casa, a Pontremoli - confida il rocker - avrò bisogno di riposarmi e di svuotarmi per dare il tempo alla botte di riempirsi di emozioni, di nuovi mondi e di nuovi sogni. Questo megatour sarà irripetibile, ma ora bisogna staccare. Non penserò subito a un nuovo disco, mi dedicherò innanzitutto a me stesso».
Qual è il ricordo più nitido che conserva di questi mesi?
«Sono tanti. Di certo è stato faticoso, ma ho potuto suonare in posti inusuali, magnifici, come la Turchia, l’Armenia, il Sudafrica o il Marocco. Un aspetto mi ha sorpreso: la grande accoglienza ricevuta ovunque. E poi ad accompagnarmi c’era la migliore band che abbia mai avuto».
Cosa cambia quando va a esibirsi all’estero?
«All’inizio cantavo di più in inglese, poi mi sono detto: gli artisti stranieri che vengono da noi cantano nella loro lingua, e allora voglio vedere se all’estero mi accettano come italiano. L’hanno fatto: in questo conta anche l’autenticità delle radici. Vieni riconosciuto come uno vero, non solo come un prodotto dell’industria».
Il suo ultimo singolo, «Una carezza», è dedicato a sua madre. Ci racconta come lo ha composto?
«Qualche mese dopo la sua morte avevo scritto una musica molto semplice, ma non riuscivo a capire con quali parole accompagnarla. L’ho lasciata lì, da parte, per un paio d’anni. L’anno scorso, durante una giornata fredda e triste, ero in un parco vicino casa. A un certo punto è arrivato un vento caldo che mi è girato intorno alla testa: stavo pensando a mia madre e mi è venuto in mente che quella fosse la sua carezza».
Tutta questa tenerezza chiude l'era di «Diavolo in me»? Il tempo ha ammorbidito il suo lato trasgressivo?
«Ma no, sono rimasto lo stesso di sempre».
Nei suoi concerti non smette di ripetere che il blues non morirà mai. Riesce a spiegare a cosa si deve questo amore viscerale?
«Mi tengo sempre aggiornato anche sugli altri generi. Eppure, dopo aver ascoltato l’ultimo lavoro degli U2 o dei Coldplay, devo mettere su un disco di blues. Ci trovo tutto quello che ho dentro: malinconia, ritmo, sensualità, energia e felicità. Il gospel e il soul sono delle braccia, ma il blues è la madre di tutte le musiche che si sono trasformate nel rock e nel jazz».
Quali interpreti di blues all’altezza riesce a individuare nel panorama attuale?
«Amy Winehouse all'estero e i Negramaro in Italia».
A Roma, invece, torna a esibirsi al Palalottomatica. L’anno scorso disse che le sembrava che i bassi se ne andassero in giro come tacchini.

Pensa che la capitale meriterebbe una struttura all’altezza per i concerti?
«Magari!»
Un’ultima cosa: tra i suoi successi recenti c’è «Wonderful life», un inno alla gioia che sembra scritto apposta per affrontare i giorni difficili. C’è proprio bisogno di un simile stimolo?
«Credo di sì. D’altronde tutti stringono i denti per andare avanti. Ma sono sicuro che ce la faremo».

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