Tra riforme, innovazioni presunte e sbandierati ritorni alla tradizione, a scuola cè poco da stare allegri. Come scrive Paolo Mazzocchini in Studenti nel paese dei balocchi (Aracne, pagg. 73, euro 7) la scuola è ridotta a «luogo di asinificio indolore degli studenti», attori di un teatro dove lo studio è sostituito da miriadi di offerte extracurricolari, figlie del peggior didatticume. Resta però la sensazione che, dietro alle lagnanze, manchi il coraggio di guardare al proprio interno.
Sarebbe bello, a esempio, poter raccontare ciò che i docenti più responsabili provano ogni volta che li attende la sostituzione degli assenti (che in ogni scuola sono sempre gli stessi: naturalmente intoccabili). È unesperienza che a me, insegnante in un liceo della periferia romana, capita di frequente. Ogni volta mi chiedo rassegnato: che vuoi fare? Il collega è malato (che fai, gli togli il diritto di star male?), è assente linsegnante in viaggio distruzione (magari a Lisbona o a San Pietroburgo o chissà dove, purché non nelle solite mete che lui conosce già) ed è assente lineffabile docente di religione, che da anni dispone di un tot di giorni di ferie mensili: studia, dicono. A scuola si impara molto, ma questa filosofia disimpegnata che distilla gocce di saggezza è il punto primo del manuale di sopravvivenza del povero insegnante.
Altre volte, però, è difficile trattenere la rabbia. E non solo guardandosi attorno, tra le pareti dove - senza che nessuno le cancelli, ormai stazioni del museo generazionale - campeggiano falli e bestemmie. Mentre durante la ricreazione accade di tutto e la puzza di canne ammorba i corridoi, è inevitabile chiedersi se la colpa del disfacimento sia solo degli alunni o dei genitori o della società tutta. E ti viene da ridere, per non piangere, quando vedi cinque studenti sospesi perché autori di uninfinita serie di intemperanze, costretti a venire a scuola comunque e parcheggiati in biblioteca a fare i loro porci comodi, tra bibite e patatine, con i piedi sulla sedia davanti alla televisione. Sorge il sospetto che la sospensione la meriterebbero spesso i dirigenti scolastici (li chiamano così, i presidi di una volta) e gli insegnanti: i primi, reclusi nella torre davorio delle loro scartoffie burocratiche, a concepire chissà quale nuova genialità da inserire nel favoloso mondo del Pof (il famigerato «Piano di offerta formativo» che ogni scuola, in omaggio allautonomia, offre agli «utenti»); i secondi, avviliti, stanchi, dolenti e demotivati, sciatti nellaspetto come rappresi nella mente.
Alcuni tra loro sono, socialmente parlando, dei miracolati: hanno vinto la lotteria del posto fisso e non li vedi aprire un libro se non quello di testo avuto in dono dal rappresentante delle case editrici. Ne conosco parecchi: li ho mai sentiti parlare di Petrarca o di Tasso? Li ho mai visti accalorarsi per un qualsiasi tema che riguardi la letteratura, la poesia, invece che le crociate sindacali per cui, accesi da improvviso fervore nellavanguardia delle barricate, si schierano a battaglia nel collegio docenti o in quello che con retorica pompa chiamano «consiglio di dipartimento»? Quando meno te laspetti, nelle assemblee, rivissute come un retaggio di tempi rimpianti, si scuotono dallaccidia e si lanciano nei più spericolati esercizi della loro rediviva fantasia. E allora, eccoli - i teorici dellimpegno civile - proporre un gemellaggio con la scuola del Burkina Faso, eccoli - i nemici della globalizzazione - inaugurare un ciclo di lezioni sul «commercio equo e solidale», eccoli - i più frivoli - proporre corsi per arbitri di basket.
Nella mia scuola, pur di evitare lo spettro delloccupazione, la dirigenza autorizzerà una settimana di autogestione studentesca. Due anni fa grande successo riscosse una lezione tenuta da un alunno su come preparare cocktail afrodisiaci.
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