Mick Jagger: «Festeggeremo l’Italia con voi»

Partito l’anno scorso negli Usa, il «Bigger bang tour» ne ha incassati finora 250. Solo i fuochi d’artificio conclusivi costano trentamila euro

Cesare G. Romana

da Milano

Visti così, da vicino, sembrano perfino più belli. Le facce da bucanieri scavate da solchi impietosi, l’eleganza avventurosa. E pazienza la scarsa confidenza con i concetti, aiutata dalle domande puerili di qualche cronista straniero.
Ma va bè. Qui, in un hotel milanese, i Rolling Stones ricevono la stampa all’in piedi, alle spalle la celebre linguaccia, il loro logo, decomposta in una sorta di rilettura cubista. Qui i quattro abitano una serie di suites, che loro stessi definiscono «un villaggio per sessanta persone»: fidanzate, figli, collaboratori. Sono a Milano da giovedì, per provare lo show inaugurale del tour europeo, di scena stasera a San Siro.
Sorridono molto, alla stampa. Tranne Charlie Watts, il batterista: il più canuto e il più parco, nel suo gessato scuro. Quanto a Mick Jagger, completo bianco e camicia bordeaux, arriva all’appuntamento con l’aureola del profeta: nell’82, avvicinandosi a conclusione i Mondiali di calcio, previde la vittoria dell’Italia e il punteggio, tre a uno. Stavolta ha azzeccato la vittoria ma cannato il punteggio: aveva detto uno a zero su gol di Totti, invece gli azzurri hanno vinto sei a quattro, e Totti non ha segnato. «Ma hanno vinto, no? Gli azzurri sono gli dei del calcio. E domani sera, sul palco, festeggerò. Come? Come nell’82», annuncia. Cioè in maglietta azzurra e bandiera tricolore. Di più non svela. Sembra del resto che i calciatori vittoriosi, pur invitati, non ci saranno.
Accanto a Jagger c’è Keith Richards, bandana nera e sciarpa, nonostante la canicola. Racconta l’intervento al cervello che ha da poco subito, e che ha costretto a rinviare il debutto del tour europeo: «Sono caduto da una palma, molto bassa: nelle Fiji, sapete, le piante non sono altissime. Così mi hanno operato, poi sei settimane di riposo e ora rieccomi, smanioso di tornare sul palco. Se ho temuto di morire? Quando succede, succede, che possiamo farci?». Ondeggia un poco, le parole gli escono sminuzzate, parrebbe un po’ brillo. Ma con Jagger si scambia sorrisi complici, sono remoti i tempi in cui suonavano fianco a fianco, ignorandosi o guatandosi storto. Ora no, ridono delle rispettive battute, condividono fraternamente i lussi da star - hanno chiesto casse di sigari e di ananas, otto stecche da biliardo, torte, pasta, verdure, frutti di mare, sei frigo colmi di bevande, trenta chili di bacon, tele per dipingere - e le veniali baldorie: sfide a boccette, incursioni festose in un bar di corso Sempione o in una discoteca di via Valtellina, bisbocce a base di torte Sacher e acqua minerale.
I cronisti stranieri imperversano, impossibile uscire dall’ovvietà. Ron Wood, in redingote e sandali, sorride dello striscione che alcuni fan esibiscono fuori l’albergo: «Ronnie, rock me tonight», implora la scritta. Un’altra ci informa che «after Elvis, only Keith», dopo Presley c’è solo Richards. Domanda: continuerete, con i concerti, anche nel 2007? L’argomento sollecita Jagger: «Per ora ne abbiamo fino a settembre, Germania, Francia, Olanda, Spagna, Portogallo, Svizzera, Inghilterra e paesi scandinavi. Poi vedremo: ci piacerebbe continuare. In America è andata così bene: quattro milioni e mezzo gli spettatori, quaranta milioni a vederci in tivù». Nuovi album, dopo lo smagliante A bigger bang? «Siamo in tournée, come faremmo?». Ma Richards obbietta: «Potremmo fare un break, durante la tournée, e cominciare a pensarci».


Altra domanda: certi versi un po’ osé, e magari qualche “intemperanza“ politica hanno attirato, su A bigger bang, l’attenzione della censura americana. Stupiti? «Succede ovunque - risponde Jagger, saggio -, è un’idiozia, ma bisogna rassegnarsi».

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