Il termine «icona» richiama la fissità definitiva di un’immagine che passa alla storia per essere quella e sempre la stessa: Marilyn secondo Andy Warhol, il poster di Che Guevara, il primo piano «imago Christi» di Jim Morrison. Se prendiamo per buono questo principio, allora Mick Jagger, leader e voce dei Rolling Stones, non è un’icona per il suo spiccato dinamismo performantico che da quasi mezzo secolo segna la storia del rock and roll.
La mostra «Mick Jagger. The Photobook» che si apre oggi alla Fondazione Forma di Milano (fino all’11 febbraio, accompagnata dal volume edito da Contrasto) conferma dunque la straordinaria versatilità del musicista, perfettamente a proprio agio di fronte all’obiettivo dei più grandi fotografi di moda e di costume che hanno avuto l’ardire di immortalare il suo carisma e la sua aurea luciferina. A differenza di altri miti del rock emersi negli straordinari e irripetibili anni ’60, di Jagger si astrae un particolare, la cosiddetta pars pro toto, ovvero le labbra carnose e la linguaccia che nel 1971 diventeranno, grazie all’invenzione del giovane designer inglese John Pasche, la griffe inconfondibile della band di Londra. Nella prima decade degli Stones, Jagger incarna perfettamente il modello della Swinging London, un abile gioco di parole che mette in luce l’aspetto sinistro del r’n’r: come un dandy all’ultima moda indossa pantaloni risvoltati e corti alla caviglia (si usano anche adesso), una lunga pelliccia, addirittura giacca e cravatta che pure non ne celano del tutto l’ambiguità. Primo grande maestro a ritrarlo è Cecil Beaton, fotografo delle dive, in uno straordinario set in bianco e nero ambientato a Marrakech e quindi sul set di Performance, il film di Nicolas Roeg del 1968, ovvero la prova cinematografica più convincente di Jagger, che a differenza di David Bowie non ha mai dimostrato particolare abilità nel ruolo di attore.
Del 1971 è il servizio di David Montgomery per l’uscita di Sticky Fingers, primo album dopo la morte di Brian Jones illustrato da Andy Warhol con la celebre cover dei jeans apribili sulla patta, dove Jagger, Richards & C. si fanno fotografare nudi, le parti intime nascoste proprio dal nuovo LP, in una sorta di citazione ironica del ritratto nature di John Lennon e Yoko Ono, a scioglimento avvenuto dei Beatles. Come dire, noi siamo gli Stones, la r’n’r band più importante al mondo, e dalle donne non ci facciamo certo influenzare perché sappiamo bene come trattarle, noi. Nello stesso decennio Mick finisce davanti alla macchina di Francesco Scavullo, che esalta la bocca carnosa come simbolo sessuale bipartisan, di Guy Peellaert, pittore e fotografo che collaborava anche con Bowie, che lo manipola in una sorta di Dorian Gray contemporaneo, ancora di Andy Warhol, fino all’incontro, davvero eccezionale, con Annie Leibovitz, della quale abbiamo l’unico scatto che supera il volto per concentrarsi sul particolare del polso segnato da una lunga cicatrice. Una foto straordinaria, in netto anticipo rispetto al ciclo The Morgue di Andres Serrano, di una violenza inusitata, che esalta l’anima nera del cantante.
Gli anni ’80, segnati dal glamour e dal kitsch, nonché da un ulteriore periodo di grazia dei Rolling Stones, colgono l’anima ironica e sarcastica di Jagger, disposto a giocarsela da protagonista del jet set internazionale, nei ritratti di Herb Ritts e nell’illusionismo psichedelico di Enrique Badulescu. Il rock compie il miracolo dell’eterna giovinezza e in effetti i segni del tempo sembrano trascurare il fisico di Jagger, a parte scavare qualche ruga sul volto per regalargli ancor più magnetismo. Avvicinandoci al presente, collabora spesso con Anton Corbjin, l’artista e cineasta olandese divenuto celebre per i reportage emotivi su Ian Curtis, Bono, Michael Stipe dei REM e i Depeche Mode. Con Corbjin lo Stone diventa ancor più performativo, si maschera, si traveste da donna. È del 1992 un altro scatto storico, il morphing tra il volto di Mick e la testa di un leopardo inventato da Albert Watson.
Infine, nel nuovo decennio, le pose di Jagger tendono a rarefarsi, quasi tornando alle origini dandy dei ’60, come piacciono a Karl Lagerfeld.
Uno degli ultimi ritratti più convincenti di questo ultrasessantenne, immarcescibile nonostante lo sputtanamento pubblico che si legge nelle pagine di Life, l’autobiografia del suo sodale-rivale Keith Richards, è proprio quello di un collega appassionato di fotografia come Bryan Adams: un monumento che ride e si fa beffe degli anni, beato lui.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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