Il microcosmo di Tresigallo, paese dei nomadi di pianura

Nella magistrale rievocazione che Diego Marani fa del borgo della sua infanzia, il disagio di una condizione di vita

È noto che gli embrioni, siano essi di uomo, serpente, scimmia o pesce, nei primi giorni di vita si assomiglino, anzi siano quasi identici. La stessa cosa accade con i ricordi d’infanzia: un medesimo tenore, una stessa smagata malinconia attanaglia ricordi appartenenti a scrittori nati in secoli e continenti diversi. La lingua dell’infanzia è una lingua franca che si ritrovano a parlare autori diversissimi, da Stendhal a Gide, da De Quincey a Dickens.
È dunque intelligente la strategia messa in atto da Diego Marani nella sua Enciclopedia tresigallese (Bompiani, pagg. 202 euro 14), uno dei libri più belli dell’anno e di certo uno dei più perfetti: demoltiplicare l’infanzia di un bambino nato in una famiglia borghese, che diventerà funzionario internazionale e romanziere di successo, in quanto vi sia di più singolare e intraducibile: i luoghi e i personaggi del minuscolo paese nel quale è cresciuto. Tresigallo è un borgo sperduto in mezzo alla pianura, spaurito al centro di arterie e campi dalle dinamiche possenti e dalla voce grossa come il Po o l’Adriatico. E tuttavia un vero microcosmo, con le sue Alpi private e le sue personali colonne d’Ercole, in grado di vantare, sebbene su altra scala, dissidi macroscopici. Come nel caso di Finale di Rero, «turbolenta frazione animata da un commovente irredentismo. Forse più antica del capoluogo, con caparbia convinzione ma senza valido motivo, Finale di Rero si è sempre sentita la nostra capitale morale».
Si fa presto a dire microcosmo, termine allusivo di una riproduzione in piccolo di ciò che solo altrove esisterebbe a pieno titolo; più difficile far comprendere che è esattamente il contrario, che Tresigallo, al pari di tanti altri luoghi minimi o minori, è un museo di pesi e misure, o un atlante che contenga il paragone di ogni cosa. Le grandi città ospitano la Giustizia, le Forze dell’Ordine, l’Università, il Clero. I palazzi delle istituzioni, per chi non sia ammesso ai loro misteri, albergano delle astrazioni. A Tresigallo no: c'è il carabiniere e il prete, l’avvocato e tutto l’arco degli intellettuali: il preside, il maestro di musica, il professore di matematica. La divisione sociale del lavoro non fugge nell’Idea: fa subito ruolo, maschera e personaggio.
E allora da dove questa sensazione di mal di mare sulla terraferma? È che a Tresigallo tutto comincia, ma già sotto forma di deriva. Le figure proverbiali del paese (il riparatore di biciclette, il barista, i parenti dell’autore) appaiono trascinati da un flusso che li scarnifica. Sono maestri, ma non nel senso che impongano un modo di essere; impongono un modo di sfarsi, di essere trascinati dal tempo. È straordinaria la lucidità con cui Marani svela la ragione del magone padano: «È sempre nomade chi abita la pianura. Non c’è qui il conforto e l’attrito di scenari maestosi, non c’è nulla cui affezionarsi, nulla che resista alle stagioni, al sole, al vento. Costretti dalla nudità dell’orizzonte, come un sasso buttiamo sempre avanti la mente».
Nomadismo stanziale potrebbe essere una buona formula con cui sanzionare questa atmosfera. Non è una diminutio, al contrario.

Forse il massimo elogio che si possa fare al luogo in cui si è nati e cresciuti è proclamare la sua non dogmaticità, la sua liberalità; così come la lode più grande che si possa rivolgere ad un genitore è di averci insegnato a vivere senza di lui. Tra l’altro, sospettiamo che il nomadismo stanziale sia un tratto della nostra epoca, se non della condizione umana.

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