Milano riscopre l’Arte Povera

P overa o costosa, bella o brutta, l’arte «fondata» dal critico Germano Celant negli anni Sessanta rappresenta l’ultima corrente, insieme alla Transavanguardia, che l’Italia ha esportato a livello internazionale. E Davide Rampello, presidente della Triennale, ha deciso che fosse Milano (e non Torino, madre legittima del movimento) a consacrarla in occasione del 150mo anniversario dell’Unità d’Italia. Lanciando il primo progetto «nazionale» sugli artisti che, mezzo secolo fa, ruppero provocatoriamente con i canoni classici della bellezza e della tecnica privilegiando, nella creazione artistica, il concetto che la governa. Gli artisti raggruppati da Celant, malgrado differenze di identità e linguaggi, erano Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio. Nell’autunno-inverno 2011, coordinato dalla Triennale di Milano, il grande progetto Arte Povera si svolgerà contemporaneamente in diverse istituzioni museali e culturali italiane: il Maxxi di Roma, la Venaria Reale di Torino, il Madre di Napoli, e il Mambo di Bologna. Ieri accanto a Celant, a Rampello e ai direttori dei succitati musei, siedevano Paolo Verri, direttore del Comitato Italia 150, l’assessore regionale alla Cultura Massimo Zanello, e Andrea Bairati, assessore all’Università e alla Ricerca della Regione Piemonte. Il progetto di Celant è ancora in embrione ma, secondo i piani, dovrebbe riunire un alto numero di opere storiche e recenti; una sorta di viaggio nel tempo dal 1967 a oggi, in diverse situazioni architettoniche e ambientali, attraverso gli avvenimenti ed i protagonisti dell’Arte povera, avvalendosi anche di prestiti dai maggiori musei e delle più importanti fondazioni di tutto il mondo.
L’iniziativa annunciata ieri desta interesse sia dal punto di vista storico, perchè intende contestualizzare in un ottica di «sistema» un periodo, quello dell’arte concettuale degli anni Settanta, che vide l’Italia esprimere personalità eterogenee e peculiari. Sia dal punto di vista del management culturale che confeziona un progetto «made in Italy» in grado di attirare pubblico anche dagli altri Paesi. In Triennale, ieri, erano presenti anche alcuni dei protagonisti di quella stagione che venne definita «povera» non tanto per i mezzi usati dagli artisti, ma per i materiali assolutamente inediti per un’opera d’arte comunemente intesa: stracci, carta di giornale, metalli, fascine e quant’altro. C’era Jannis Kounellis, che nel 1969 portò in un una galleria d’arte di Roma 12 cavalli vivi come simbolo di energia primaria. Era presente Giovanni Anselmo, quello delle «Torsioni», che realizzava opere composte da materiali organici e inorganici come pietra, terra, metallo, acqua o cotone, come simulacri del rapporto tra energia e gravità, finito e infinito. C’era anche lo scultore Gilberto Zorio che cercò di rappresentare il concetto di materiale e immateriale attraverso gli «attrezzi per purificare le parole», le stelle, le canoe o le «macchine irradianti». Ieri sarebbe stato meglio vederli, anzichè in mezzo al pubblico, tra i relatori per provare a raccontare quali entusiasmi veri o presunti accomunavano le loro esperienze così eterogenee; complici senz’altro le illusorie ideologie della «guerriglia» nell’epoca del boom, ma anche l’anelito ad una teatralizzazione figlia dei finti palcoscenici di Jerzy Grotowsky.

Un’idea di teatralizzazione della vita da cui, per la prima volta, prese forma l’«installazione ambientale» come opera d’arte radicale dove la «Povertà» voleva essere sinonimo di essenzialità, rigore, condivisione e rifiuto delle gerarchie. Quelle installazioni che oggi, spesso svuotate di senso, ancora affollano le mostre dei giovani artisti contemporanei.

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