L'Alberta ci rimase di sale quando un tizio che non conosceva, uno dei tanti che le passarono tra le grinfie, le rovesciò tra le mani cinquanta marchette e non chiese nulla. Non la sfiorò nemmeno. E quando lei provò a sedurlo, lui la invitò a lasciare quelle lenzuola sudice e faticose. E a dedicarsi ad altro. Al mattino, di buon'ora, lo sconosciuto si alzò e andò a Monza a uccidere un uomo. Quell'uomo era re Umberto.
VIcolo Bottonuto. Al 3. In quel casino, Gaetano Bresci dormì soltanto. Era un quartiere di malaffare e venne distrutto all'approssimarsi degli anni Trenta, quando fu progettata piazza Diaz. L'anarchico non rivelò mai dove avesse trascorso la notte prima del regicidio, ma pare che il suo sonno fosse stato profondo. La signorina si sbottonò già di più, come suo costume. Disse che quel tipo con i baffi era stato il più generoso di quelli che aveva amato, ma - ahilei - non l'aveva mai più rivisto. Nelle case chiuse gli affezionati erano pochi. Qualcuno tornava e la signorina sorrideva. Quasi tutti cambiavano strada. Gambe. Letti. E confidenze. Perché pensare che su quei divani si facesse solo quello, era un abbaglio.
Un gruppo di ragazzotti entrò baldanzoso. Freschi freschi di scuola. Ognuno reclutò una ragazza, ma nessuno finì in camera. Alla faccia della megera che odiava i guardoni. E chi faceva flanella. Ovvero perdeva tempo. Perché ogni attimo, in fondo, per lei, era denaro. La lasciarono sbraitare. Non si curarono di quelle urla. E nessuno si spogliò. Anzi. Tra il salotto e i corridoi del bordello, fecero sfilare le miss come dame. Da quei visi femminili una lacrima cancellava l'ombra del sesso mercenario. Si sentirono donne. Per un giorno. E fu un'emozione. Poi i goliardi, come erano venuti, se ne andarono. Dopo averle applaudite. E pagate.
Non sempre costavano poco. In via Disciplini 2 e al San Pedron se ne scucivano eccome, di quattrini. Però i velluti erano di prim'ordine. Come le fanciulle. Dalla matrona si acquistavano le fiche (con preghiera di leggersi rigorosamente alla francese). Alla ragazza se ne davano in proporzione alla prestazione richiesta. Previa lettura del regolamento della casa, snocciolato in targhe e targhette. «Le signorine lavorano! Si prega di non intrattenerle con le bagatelle inutili. Tanto i prezzi del tariffario non si cambiano». «Vietato molestare le signorine prima di aver pagato la marchetta». Impegno normale, ossia una sveltina: £ 1.10. Impegno doppio: £ 1.90. Minuti 20: £ 3.50. Mezza giornata: £ 20. Sconti per studenti e militari.
L'unica norma vera, però nessuno l'aveva scritta. Proibito innamorarsi. E ogni quindicina cambiava lo scaglione. Bocca di rosa doveva trovarsi un'altra casa - sempre chiusa, s'intende - e l'eccitazione saliva. Tra chi arrivava e chi aspettava. Profumo di novità. E ne sapeva qualcosa anche il bacioccon del Porta, on colloron del Domm che con la scusa della Messa, lasciò a casa la Peppa, orefice stimata e s'intrufolò al casino dell'Aquila. Pieno centro. Alla damina diede uno zecchino falso e si ritrovò nella gendarmeria a fianco, in via Santa Margherita. A due passi dalla Scala.
Due secoli dopo, la lussuria costava 250 lire. O il fascino futurista. Marinetti s'invaghi di Mata Hari che per lui danzò nuda al primo piano della Casa Rossa in corso Venezia 61 «tattilismo di seta carne velluto cespugli solitudini tane felini sofficità asprigne che fili di luce subdolamente palpano». Rudolf McLeod, che della signora fu marito, si confessò alla penna. «Se potessi liberarmi di questa prostituta sarei felice».
C'è chi l'amore lo fa per noia, chi se lo sceglie per professione, per i ragazzi anni Cinquanta, significava andare a lezione. La maestrina insegnava i segreti dell'ars amatoria e loro, tra un ghigno e un miserere, si facevano belli con ignare fidanzate. Passato il tempo, cambiava il giro. L'unico viagra erano «volti» nuovi di zecca. Tranne qualcuno. Come la Rosetta della Vetra, bimba prodigio. Ma nel canto. A 13 anni l'Elvira cantava nelle osterie del Ticinese. Era Rosetta di Woltery. A 16 tentò la scalata al successo. Salì sul palco del Sammartino, il teatro di piazza Beccaria e intonò Scarliga, una novità scritta per lei da Marco Ramperti. Ma il trionfo, quel villano dispettoso, la sedusse e le voltò le spalle. Rimase Rosetta. Della Colonnetta. Batteva in quel punto di piazza Vetra, chiamato così perché nel 1778 stava appesa la colonna infame, resa famosa da Manzoni nei Promessi sposi. Era l'agosto del 1914 e la Rosetta volle fare due passi. Lasciò la colonna e s'intrufolò in vicolo Vetraschi, di lì a pochi passi. Un intrico malfamato tra bordelli e malavita. I primi erano il suo pane, la seconda un gruppo di amici.
Quella sera la Rosetta la pretese un questurino, ma lei che aveva giurato di non far mai l'amore con uno sbirro, si negò. Tra spinte e strattoni, lui perse la pazienza e, all'ultimo diniego, la colpì con il calcio del moschetto. La Rosetta barcollò e cadde. Tutti capirono la gravità e una lettiga, trainata dai cavalli, la portò di corsa all'ospedale. Troppo tardi. Un'emorragia l'aveva uccisa.
Al funerale c'erano tutti, dal commissario al sagrestano, con gli occhi rossi e il cappello in mano. E la Rosetta andò al camposanto, con le colleghe vestite in bianco. Il colore della purezza. Fu un azzardo. Ma tutto in realtà lo era. Nessuno ci fece caso. Fu amore sacro e amor profano.
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