In sei minuti e mezzo possono accadere tante cose. Può capitarti di precipitare di colpo nei panni di un rifugiato, di impazzire per miglia e miglia sotto il sole cocente del deserto, di arrancare sulla sabbia, essere individuato e fermato dalla polizia, camminare sugli stracci insieme a un'umanità senza speranze: un migrante accanto a molti altri. Intanto ti può accadere di riflettere sul nuovo ruolo dell'arte nell'epoca del protagonismo e della brevità, contraddistinta non più solo -come ammoniva Benjamin-, dalla semplice riproducibilità tecnica, e nemmeno soltanto dall'approccio «pop» e consumistico, ma soprattutto dall'erosione del tempo di fruizione e dalla ricerca spasmodica dell'emozione in prima persona. Un'arte osmotica «a tempo determinato» (possibilmente breve), in cui sentirci al centro della scena: «art by doing», insomma. Ebbene, eccoci accontentati: la via percorsa dal regista e sceneggiatore messicano Alejandro González Iñárritu è quella della realtà virtuale, con l'impiego di tecnologie all'avanguardia che rendono straordinariamente fluido il passaggio fra la carne e l'immagine. In Fondazione Prada, negli spazi del Deposito, fino al 15 gennaio 2018 è visibile (o per meglio dire esplorabile, rigorosamente su prenotazione, costo 10 euro), «Carne Y Arena», il corto esperienziale, frutto della collaborazione con Emmanuel Lubezki, Mary Parent e ILMxLAB, che ha incantato l'ultimo festival di Cannes ed è già diventato un evento. Poco più di sei minuti, appunto, in cui i visitatori (a cui viene chiesto di togliersi scarpe, occhiali, borse, dispositivi e apparecchi elettronici) si addentrano nell'installazione e d'improvviso diventano migranti, in un'esperienza individuale talmente forte e scioccante da essere vietata ai minori di 16 anni.
E la cosa più drammatica è che non si tratta di pura opera di fantasia: il lavoro è stato realizzato al termine di ben quattro anni di ricerche durante i quali il regista ha incontrato e intervistato numerosi rifugiati dell'America Centrale, facendosi raccontare le loro esperienze e travasandole in una forma di comunicazione mai vista, in cui l'umano sconfina nell'immaginario e viceversa, si superano le barriere -non solo quelle fra Stati, ma anche quelle fra forme d'arte - e si abbatte, come ricorda lo stesso Iñárritu, la dittatura dell'inquadratura «attraverso la quale le cose possono essere solo osservate».
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