nostro inviato a Locarno
«Forse non è oro, ma ci assomiglia. Dopo una raffica di secondi posti, questo Pardo alla carriera ha il giallo brillante del metallo più prezioso. L'importante è partecipare, ma vincere non è male». Tra I pugni in tasca in concorso nel '65 a oggi ballano 50 anni. Mezzo secolo di cinema e successi. Denominatore comune è Locarno. Allora vinse la Vela d'argento dopo la sorprendente esclusione dalla Mostra di Venezia. A settembre invece sulla laguna ritornerà con Sangue del mio sangue . Un tabù. «Sono stato imbavagliato dall'ufficio stampa. Mi hanno imposto il silenzio, altrimenti tutti avrebbero parlato solo del nuovo film. Invece sono qui con la stessa pellicola di allora, restaurata e rimasterizzata in 4k». Marco Bellocchio, allora esordiente di talento e oggi presidente della Cineteca di Bologna, sorride di quello ieri lontano, quando si presentò sulle rive del lago con 26 anni sulle spalle. Un fardello di ambizioni. Un manipolo di debuttanti allo sbaraglio. E una storia di follia.
«I pugni tasca costò venti milioni di lire grazie a un fido della Banca Commerciale, che ora non esiste più. Ci lavorava mio padre, ecco la verità. Bastò, ma risparmiammo su tutto. Girammo a Bobbio, il mio paese. Gli attori erano compagni della scuola di cinematografia. Come i tecnici. Consegnammo la pellicola a un laboratorio che sbagliò tutti i bagni di sviluppo. Lo ammisero e rifecero il lavoro, ma il danno era fatto. Per questo il film è invecchiato precocemente e i neri si sono improvvisamente ingrigiti». Da I pugni in tasca in gara a I pugni in tasca in passerella. Cinque decenni di film d'autore sui temi più diversi.
«Al debutto, parlai di pazzia, ma anche di famiglia. E del suo sfaldamento. Era in voga all'epoca. Nel '71 Ken Loach ci sarebbe tornato con Family life , ispirato alle teorie antipsichiatriche di Ronald Laing. Se oggi il mio film ha ancora successo lo deve all'essere slegato dal contesto sociale. Ed è vivo tuttora». Simile evoluzione per i media. Nel '72 uscì Sbatti il mostro in prima pagina . Vi compariva Il Giornale , borghese e di destra, che nulla aveva in comune con il quotidiano fondato da Montanelli due anni dopo. Le riprese si svolsero nella redazione dell'Unità, organo del Pci. Opposti inconciliabili. E buffi. Molto diversi dai giornali che appaiono in Buongiorno notte .
«Mi interessava l'aspetto claustrofobico. Lo spunto della prigione nella prigione. Non solo Moro era l'ostaggio, ma anche i sequestratori. Condannati in quelle stanze. Il mondo esterno visto dall'interno, insomma. I rapitori hanno contatti con la realtà attraverso la tv. Le dichiarazioni dei politici. Il discorso di Lama che si lanciò contro le Br. La follia di fuori e la follia di dentro». E una ricostruzione storica che lascia a desiderare. «Ho falsificato, ma non voleva essere un racconto di fatti. Mi dispiace di non aver inserito la confessione a Moro prigioniero. La svelò Cossiga dopo il film. Se l'avessi saputa prima… era il ritratto delle contraddizioni nostrane». Cinema italiano. Forse non vince, spesso «stravince». «È caoticamente vitale. Tutt'altro che morto. E ricco di sperimentazione. Avrà quattro film al Lido e tre a Cannes. Ai David ci sono 49 esordi». Eppure si tende a rinchiuderlo nei suoi circuiti.
Senza riconoscergli internazionalità. Locarno ha proiettato tre perle. Bella e perduta , Pastorale Cilentana , Asino vola . Solo il primo in gara. Ma per avere premi servono occhi a mandorla e metraggi chilometrici. Logorrea di immagini.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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