Al Palalido canestri di storia Ora l'Olimpia cerca una casa

Sono ancora fermi i lavori per restituire alla città il palazzetto del basket. Da Meneghin a McAdoo a D'Antoni, su quel parquet giocarono i più grandi

Al Palalido canestri di storia Ora l'Olimpia cerca una casa

Presto abbatteranno quello che per il popolo milanese del basket era il Pala Trussardi. Il palazzo di San Siro non esiste dalla nevicata del 1986. Nessuno sa ancora quando verrà terminato il progetto Armani, bloccato dal ritrovamento di troppo amianto, in modo da poter restituire alla città Il glorioso Palalido, la culla dell'Olimpia basket, prima come casa per l'epopea della squadra che Adolfo Boncelli si era inventato per Milano, dal Borletti al Simmenthal, dal primo dopoguerra al 1973, chiamando da Trieste il generale Rubini a cui incredibilmente non dedicheranno la nuova arena del Lido, poi nell'età dell'oro di una squadra inimitabile diretta dal genio di Dan Peterson, costruita e tenuta insieme dalla competenza di Tony Cappellari, resa indimenticabile da grandi giocatori come D'Antoni, Meneghin e McAdoo, tenuta insieme dalla forza economica della famiglia Gabetti subentrata all'ingegner Cavalli che tenne a battesimo la prima banda bassotti del nano ghiacciato di Evanston con le sigle Billy,Simac, Tracer e Philips.
Fra queste macerie, a pochi giorni dalle finali della coppa Italia che si giocheranno al Forum di Assago fra il 7 e il 10 febbraio, la nuova Olimpia rilanciata da Giorgio Armani e dal suo Emporio, cammina cercando di ritrovare la vittoria perduta: è dal 1996 che Milano non conquista nè la coppa Italia nè lo scudetto.
Proprio per questo i ricordi che popolano la nostra solitudine, rendendola ancora più grande, ci obbligano a cercare qualcosa che colleghi lo squadrone di oggi, sicuramente ricco ma non ancora forte, a quelli di ieri, ci obbligano a riaprire il libro scritto da Franco Casalini, fedele scudiero di Peterson prima di cavalcare da solo per la tripla corona fra l'addio del capo allenatore nel 1987, coppa intercontinentale, coppa campioni e scudetto dell'89 nel controverso finale di Livorno, passando dal tormento della monetina sulla testa di Meneghin a Pesaro. Certo tutto è più bello quando è visto a distanza come dice uno scrittore francese ma dobbiamo confessare, avendole vissute in prima persona, che le storie raccontate da Casalini nel suo libro «E via...verso una nuova avventura» ci ostacolano quando cerchiamo di capire che cosa manca a questa Emporio Armani per riuscire riportare scudetti e coppe in una città che ha sempre amato il basket, anche se chi l'ha governata non mai fatto molto per ridarle un palazzetto dello sport vero in città.
Il titolo del libro è «rubato» da una frase di Meneghin sul pullman, all'alba, dopo una brutta sconfitta. Quello era il modo per buttarsi alle spalle il passato, per sdrammatizzare un momento difficile, era il modo di vivere di quella che l'autore, giustamente, chiama la squadra della sua vita, non ancora randagia, fra telecronache e giornalismo, dal 1979, il primo giorno di Peterson a Milano, al 1990 la fine dell'epopea sul campo di Reggio Calabria. Erano amici e facevano squadra, ma riuscivano a stare insieme perché protetti da una società dove tutti erano importanti e lo capisci dagli aneddoti, dal racconto di viaggi, allenamenti, partite, litigi, dalle notti interminabili e dai risvegli nella felicità del successo, ma anche nella dolorosa ammissione di aver perduto qualche treno perché gli avversari erano stati più bravi.
Volevano vincere sempre, anche giocando a carte, ma non tutto era facile da raggiungere. La verità è che questa voglia di essere i primi faceva dimenticare tutto il resto, gli americani sbagliati, gli uomini irrequieti. Per arrivare dove volevano tutti, ma proprio tutti, dall' allenatore al mitico fisioterapista Angelo Cattaneo, si rinunciava a qualcosa, facendo spazio ai nuovi come se fossero sempre stati nell'allegra brigata. Per capire talenti immensi come Antoine Carr, Joe Barry Carrol, per coinvolgere totalmente un vero asso della NBA come Bob McAdoo, ognuno doveva rinunciare a qualcosa, ma una volta conquistati erano parte del gruppo e persino un ragazzino difficile come Cedric Henderson riuscì a lasciare una traccia nella storia di successi della vera Olimpia.
La storia comincia con la scoperta del pianeta petersoniano e finisce con le grandi battaglie per vincere coppe e scudetti, per stare in piedi anche dopo finali perdute. Il segreto era nascosto nel famoso spogliatoio numero cinque del Palalido, nelle snervanti nottate di critica e commemorazioni al famoso Torchietto del Sergio Ragazzi sui Navigli, una tana storica che oggi non esiste più perché in quel ristorante, dove il padrone di casa lasciava le chiavi tornando all'alba del giorno dopo sicuro di ritrovare almeno i fedelissimi, adesso smerciano «meraviglie» del fast food.
Per riscoprire quei segreti basta seguire la memoria del nostro autore che era anima del gruppo, il poliziotto buono quando guidava Peterson, un eccellente allenatore quando è toccato a lui accompagnare sulla porta per l'addio Dino Meneghin e Mike D'Antoni che erano tanto diversi nel vedere la vita, ma uniti da un'unica passione, quella di arrivare sempre a dare il massimo e, potendo, a vincere.
Il viaggio dovrebbe aiutare quelli di oggi, anche se a chi guida l'Olimpia viene l'orticaria pensando a come erano gli uomini di quell'epopea vincente. Nelle ultime pagine c'è la guida storica dei giocatori, da Aldi a Walker , un bel californiano sostituito a inizio stagione da Carrol che fu protagonista per un grande scudetto: la sua parola preferita era «nasty», brutto, sgradevole, quando in spogliatoio scoppiava la baraonda, ma alla fine divenne anche lui un pivottone nasty e andandosene dopo la vittoria regalò a tutti, proprio tutti, un orologio. Amati e amabili senza limiti, era la loro forza, se uno aveva debolezze gli altri coprivano, una palla rubata, una battuta per stemperare la tensione, un modo di far sentire a casa chi arrivava spaesato da altre esperienze di gruppo, da altre culture. Squadra, gruppo, famiglia, sembra retorica, ma era proprio così e come in tutte le famiglie si litigava pure, ma al momento di andare in campo valeva la prima regola di Peterson: fuori da qui vi difenderò sempre.


Piccoli segreti, grandi storie con un finale dedicato agli eponimi nella categoria grandi giocatori e ai loro discendenti, dai Dantonidi ai Meneghinidi rendendo omaggio ai molti avversari incontrati dai Cosicciani ai Marzoratidi passando agli Yelvertonidi e ai Sacchettidi, il Romeo che sarà al Forum con la sua Sassari per le finali di coppa Italia.

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