Viaggio nel Cie di via Corelli tra minacce e voglia di fuga

Come inizi le tue giornate, Giorgio?
«Mi alzo la mattina e mi metto a piangere».
Giorgio ha trentun anni e sotto la maglietta un seno teso e fiorente da ragazzina. É uno dei sedici transessuali ospiti (ma su questa definizione si potrebbe discutere a lungo, trattandosi di ospiti che non se ne possono andare; quindi la definizione esatta sarebbe “reclusi”) del Cie, il Centro di identificazione ed espulsione di via Corelli. Ieri per la prima volta da molti anni, il Cie viene aperto ad una visita della stampa, come promesso dal ministro Annamaria Cancellieri. Ma non tutto fila liscio. Appena la pattuglia di cronisti entra nel corridoio centrale, dai settori in cui è diviso il Cie parte una sarabanda di urla. I reclusi prendono a pugni le porte blindate che li separano dal corridoio. Iniziano i trans, poi tutti gli altri: gli arabi, gli africani, gli europei. Qualcuno dai cortili o da dietro le sbarre fa il gesto di voler parlare, qualcuno sembra minacciare. Molti portano una maglietta offerta dalla Croce Rossa, «liberi di vivere, liberi di giocare», che qui dentro sembra umorismo macabro. Ma se sia rabbia, protesta, o solo bisogno di comunicare, i cronisti non lo saprannno mai, perché «per motivi di ordine pubblico» la visita ai reparti viene sospesa. L'unico contatto con gli «ospiti» sarà l'incontro con Giorgio, il trans, e con un tunisino di nome Abdel. Dice Giorgio: «Non ce la faccio più. Non sono un animale per stare chiuso».
La visita, però, non è inutile, perché qualcosa si scopre. Per esempio, che via Corelli è meglio di San Vittore: le stanze - non chiamamole celle, per carità - sono grandi, e ospitano solo quattro brande; le stanze sono aperte, e nei settori e nei cortili si circola; c'è in corridoio il telefono e si può chiamare casa. Ma le differenze tra il Cie e un carcere si fermano qui. Eppure quelli che vivono qua dentro - fino a un massimo di diciotto mesi, un'infinità - non hanno commesso reati. O se li hanno commessi li hanno già espiati, e sono qui in attesa che il loro paese si dichiari pronto a riconoscerli come suoi cittadini ed a riaccoglierli, e che lo Stato italiano li rimbarchi su una nave o un aereo. «Lager» ed espressioni simili, una volta visitato il Cie, si rivelano iperboli che non hanno ragione di essere. Ma che questa sia una prigione per innocenti è un dato di fatto.
Si scopre anche dell'altro. Per esempio, che bombardare i detenuti di psicofarmaci - per tenerli tranquilli o evitare che si ammazzino - è una prassi costante delle carceri, e che qui dentro prosegue anche se a dosi ridotti: «Quelli che arrivino qui dal carcere - dice Massimo Chiodini, il capo dello staff della Croce Rossa che gestisce il Cie - sono abituati a dosaggi abbastanza estremi, e noi cerchiamo di ridurli, anche se loro ne vorrebbero sempre di più». Quanti sono a prendere psicofarmaci? «La maggioranza». Di ansiolitici e tranquillanti esiste evidentemente anche un mercato nero interno, visto che in infermeria un cartello ricorda agli operatori che benzodiazepine e simili si possono somministrare solo a gocce, e se esistono solo in compresse vanno polverizzate e assunte sul posto, per evitare che il paziente le rivenda.
Si scopre che anche qui, come a San Vittore, ci sono gli ultimi degli ultimi, i reclusi tra i reclusi: i transessuali, maschi per l'anagrafe, mutanti nel corpo, che vivono separati per non essere stuprati a ciclo continuo. Sono quattordici, e fanno del Brasile la comunità più numerosa tra i 64 reclusi del Cie. «Appena arrivano - racconta Chiodini - facciamo loro tutte le analisi, e quando leggiamo i risultati c'è da mettersi le mani nei capelli». Per la sifilide, che nella comunità trans è tornata endemica, lo Stato nemmeno passa più la penicillina. Così alcuni vengono liberati perché dichiarati ingestibili, incompatibili con la vita di comunità. Gli altri restano qui, nelle giornate che non finiscono mai, con gli ormoni maschili che riprendono il sopravvento, e le barbe che tornano a spuntare.
Ogni tanto qualcuno decide di non poterne più. A volte scappano: nell'angolo a sudovest del cortile è stato segato di fresco l'albero che l'ultima volta servì da scala ad un ospite che non aveva più voglia di farsi ospitare. Altre volte scoppia la rissa, il tumulto, e spaccano tutto. Racconta Abdel: «A gennaio c'ero anche io. Venne la polizia in reparto per cercare chi aveva i telefonini. Ne portarono via due. Io andai a dormire ma mi svegliai poco dopo perché bruciava tutto». Il resto del tempo passa nel nulla delle giornate, tra gocce di bromuro e colloqui con gli psicologi. «Ma io qui non riesco a stare - dice Giorgio, il trans - perchè non si può vivere con questo schifo, con questo casino».

Ce l'ha con le altre come lui, con le altre princese portate qua dalla risacca della vita: e che fanno chiasso, ascoltano la musica troppo alta, urlano, litigano. Ma ce l'ha soprattutto con quel muro grigio che la rinchiude senza che abbia colpe. «Sto per ammazzarmi», dice.

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