C’è un nuovo serial killer che si aggira per le strade di Parigi. La polizia lo ha battezzato Pinochet perché è convinta che il pericoloso criminale abbia un’insana passione per le torture e desideri la sottomissione completa da parte delle proprie vittime che è solito impiccare dopo averle scelte fra gli omosessuali. A dargli la caccia è il commissario di origine ebreo-marocchina Benchimoun (soprannominato Bentch dai colleghi), protagonista, con una serie di buffi e multietnici comprimari, di Ore contate (Giunti Editore) che segna il debutto in Italia di Tito Topin, scrittore che Oltralpe è da tempo seguitissimo sia per i suoi noir, sia per la saga televisiva del commissario Antoine Navarro (trasmessa da noi su Rete 4) da lui firmata, un serial iniziato sulla rete nazionale francese Tf1 nel 1989 che si è concluso nell’aprile 2007, dopo 18 stagioni e 106 episodi, tutti interpretati dal granitico Roger Hanin.
Topin, com’è nata una produzione televisiva così longeva?
«Mentre stavamo festeggiando il successo di uno dei primi gialli che avevo scritto per la televisione, il produttore mi prese da parte e mi chiese: “Non hai un’idea per un eroe che possa essere protagonista di una vera e propria serie?”. Io avevo già scritto sei romanzi polizieschi per la “Série Noir” di Gallimard in cui l’eroe era Emile Gonzales, un commissario di polizia di origine marocchina. Ho semplicemente adattato quel personaggio per la televisione e l’ho chiamato Navarro, un cognome universale».
Uno dei trucchi del mestiere?
«Nei fumetti di solito si crea un personaggio principale e poi si aggiungono intorno a lui accessori e altri personaggi che arricchiscono le storie successive. Basterebbe pensare al Tin Tin di Hergé e a comprimari come Dupont e Dupond, il professore Tournesol, il capitano Haddock, la signora Castafiore. In televisione bisogna che fin dal primo episodio siano presenti sia tutti i personaggi sia le ambientazioni nelle quali si muovono. Le location sono prestabilite e costruite ad hoc. Prima di proseguire nello sviluppo di una saga bisogna avere in testa l’evoluzione di tutti i personaggi. È difficile, ma appassionante. Per Navarro lo stato di grazia è durato 18 anni, durante i quali ho assunto la direzione totale della serie. Ho coordinato le sceneggiature, vigilato sull’omogeneità delle puntate e scritto tutti i dialoghi. L’anno scorso mi trovavo in Sicilia e ho visto in tv il mio Navarro che indagava in italiano. Mi è parso molto convincente».
È più facile scrivere per la televisione o realizzare romanzi come Ore contate?
«Non c’è una vera e propria scrittura nelle sceneggiature televisive. O meglio, non c’è una grammatica, né una sintassi particolare da rispettare e il vocabolario è povero. Nella colonna di sinistra, dove stanno in genere le descrizioni, le frasi sono lapidarie, descrittive. “Apre la porta”, “si impadronisce del coltello da cucina e glielo pianta nella schiena”, “sorride, si accende una sigaretta, reindossa la gonna”. La sola scrittura delle sceneggiature è quella dei dialoghi, dove bisogna essere furbi nell’inserire indizi senza dare troppe informazioni allo spettatore. Ciò non vuol dire che scrivere una sceneggiatura sia facile, ma un buono sceneggiatore può rivelarsi un mediocre scrittore. Per chi ama giocare con la lingua, scrivere un romanzo ti arricchisce di più. Per chi ama le immagini la sceneggiatura è sicuramente più emozionante: vedere il proprio lavoro interpretato sullo schermo da Valeria Golino, ritrovare le proprie parole sulla bocca di Sophia Loren... D’altra parte la sceneggiatura televisiva e cinematografica anche se per sua natura è scarna, essenziale, povera, arricchisce sempre economicamente chi la firma».
Quando ha cominciato ad appassionarsi di letteratura nera?
«Nel 1948, anno in cui la Série Noire nacque in Francia, negli scantinati delle edizioni Gallimard, con le sue originali copertine cartonate nere e gialle. Avevo sedici anni ed è stato allora che ho iniziato a fare letture più “adulte”. Così ho cominciato a divorare le storie di Peter Cheyney, James H. Chase, Chandler, Goodis. Già il cinema mi aveva cullato con certe atmosfere. Gli americani erano sbarcati nel ’42 a Casablanca con i loro chewing-gum, le sigarette bionde, il jazz, i film noir. E così io andavo al cinema a vedere film che non erano ancora sottotitolati. Non capivo niente d’inglese (e ancora oggi non lo parlo) ma subivo tutto il fascino di una donna disinibita e affascinante come Barbara Stanwick».
Quanto è stato importante, per la sua crescita letteraria, essere stato anche autore di fumetti e pubblicitario?
«La narrazione nei fumetti è ellittica. Un grande sceneggiatore e disegnatore come Philippe Druillet ha dichiarato una volta che il punto di vista del lettore è proprio là dove ci sono gli spazi bianchi fra una vignetta e l’altra. È il lettore che ha la capacità di legare una vignetta all’altra. È lui che trova un senso a ciò che il disegnatore ha rappresentato. Quando lo spazio bianco è troppo largo, spesso il lettore si annoia. Ma anche quando è troppo stretto il lettore non si sforza di capire e si fa prendere dalla noia. Tutto il mio lavoro di sceneggiatore di fumetti, ma anche quello di romanziere, si rifà a questo concetto grafico e letterario. Bisogna saper suggerire al lettore, parlargli né troppo né troppo poco in modo da lasciare libera la sua fantasia. Il mio lavoro è un po’ come quello del giocatore di carte, devo tenere in mano i miei assi il più possibile, senza buttarli subito sul tavolo. Lavorare per il mondo della pubblicità mi ha insegnato a utilizzare un linguaggio diretto, comunicativo, e possibilmente esplosivo».
Lei ha detto: «I miei romanzi sono il risultato di cattive letture, di lunghe conversazioni alcoliche e di grandi sofferenze». Sottoscrive ancora questa sua frase?
«Certo. Sono sempre sincero quando scrivo certe cose, se no sarei semplicemente una macchina con dei bottoni da schiacciare».
Lei è nato a Casablanca. Crede che la sua città natale in qualche modo abbia segnato il suo destino?
«È stato Raymond Chandler a farmelo capire, lui che aveva dislocato il suo Marlowe in California. A partire dal mio tredicesimo romanzo 55 de Fièvre (edito nella collana Folio Policier di Gallimard) ho capito che c’era una forte analogia fra gli Stati Uniti e il Marocco degli anni ’50. Noi giravamo con macchine americane decappottabili, i nostri palazzi non avevano nulla da invidiare a quelli della Florida e le nostre palme erano soprannominate “washingtoniane” e ornavano le nostre splendide avenue in riva al mare. Le nostre ragazze avevano sempre l’aria da vamp sedute ai tavolini dei bar, ascoltavamo jazz, portavamo i jeans, bevevamo whiskey e intanto la Mano nera preparava delle bombe. Ho scritto molte storie ambientate in quel periodo a Casablanca, in quella città piena di sole che è stata il letamaio in cui sono cresciuto. Sono romanzi realistici per i quali ho consultato i giornali dell’epoca.
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