MIRIAM MAFAI «L’insostenibile pesantezza del comunismo»

Nel suo «Diario italiano 1976-2006» traccia un bilancio di trent’anni di militanza. E qui spiega le ragioni del fallimento di chi non seppe vedere oltre gli interessi di partito

MIRIAM MAFAI «L’insostenibile pesantezza del comunismo»

Dando un’occhiata fuori dalla finestra su Villa Pamphili, dice: «Quando sono arrivata, qui di fronte pascolavano le pecore». Nel frattempo la via Gluck di Monteverde vecchio s’è riempita di traffico e Miriam Mafai è diventata una delle più famose giornaliste italiane. Da poco è uscito con Laterza il suo Diario italiano 1976-2006, una raccolta di trent’anni di cronache, inchieste ed editoriali scritti per Repubblica, che è anche un’occasione per fare il bilancio di una lunghissima militanza a sinistra. Esibendo quella disarmante franchezza che si può permettere solo chi ha vissuto intensamente ciò che oggi critica senza sconti.
Tanto per cominciare, qualche anno fa a prendere nota dei fischi ricevuti qualche giorno prima da Guglielmo Epifani a Mirafiori ci sarebbe stata lei. Oggi che effetto fanno?
«Non mi stupiscono, me li aspettavo. Ricordo un’epoca, gli anni Settanta, in cui i fischi venivano lanciati contro una classe dirigente sindacale di ben altro spessore, i Trentin, i Carniti, i Benvenuto. Certo, colpisce vedere che questa contestazione arriva con un governo di centrosinistra».
Ma al governo ci sono partiti operaisti...
«Allora spieghino questo, agli operai: la loro parte di riduzione del cuneo fiscale, che fine ha fatto? Non si capisce. Ed è l’ennesimo schiaffo a quelle “tute blu” che, fino alla fine degli anni Settanta, guadagnavano poco ma si sentivano classe dirigente, avanguardia sociale con un avvenire radioso. Oggi questa “coscienza di sé” è venuta meno».
Sinceramente, non era scontato pensare a contestazioni così diffuse contro Prodi. Andiamo dai ricercatori del Cnr ai ragazzotti del Motor Show.
«Cosa pretendi, con una legge finanziaria che appare un coacervo di misure confuse e contraddittorie... Non è, come si illude qualcuno, un problema di cattiva comunicazione, ma di cose molto concrete. Ancora oggi non ho capito cosa succederà con i precari nel pubblico impiego. Senti un ministro, li assumiamo tutti, senti un sottosegretario, ne assumiamo un pezzo, senti un altro e non si fa nulla. E siamo alla vigilia del varo della finanziaria “riformista”».
Giusto, il riformismo. Lei scrive che il Pds, per bocca di D’Alema, ha aspettato il 1996 per sdoganare «la “parola maledetta” che ha diviso per oltre mezzo secolo la sinistra socialista e quella comunista». Solo dieci anni fa. Un po’ troppo tardi, forse.
«Una cosa di cui mi sono convinta è che i treni non passano quando vuoi tu. Non è la stessa cosa dirsi riformisti oggi o essersi definiti così vent’anni fa. Il momento giusto per abbracciare il riformismo è passato. Il momento giusto era il 1964, dopo la morte di Togliatti, quando Giorgio Amendola propose la fusione tra Pci e Psi. Era troppo presto? Forse. Ma non era più troppo presto nel 1984, dopo la morte di Berlinguer. Per la sua successione si fecero alcuni nomi di riformisti veri: ad esempio Luciano Lama, ma anche Giorgio Napolitano. All’epoca era ancora vivo Gerardo Chiaromonte, c’era Alfredo Reichlin, insomma il gruppo riformista c’era. Invece fu scelto Alessandro Natta. Bravissimo, per carità, ma il contrario di un innovatore. E mi innervosisco quando senti i dirigenti comunisti di allora e ti dicono: sai la base... Stupidaggini. Sì, negli anni Ottanta la base comunista era ancora imbevuta di mitologie rivoluzionarie. Ma è nella capacità di guidare e non di farsi guidare che si vede la forza di una classe dirigente!».
Forse a sinistra si doveva trovare il coraggio di rivalutare Bettino Craxi. Lei dice: «Ha capito tutto, in anticipo... ».
«Craxi è stato un grande cervello politico. Mi viene in mente la Conferenza programmatica del Psi a Rimini, nel 1982, dedicata a “meriti e bisogni”. Lo sdoganamento della meritocrazia rappresentò una novità davvero rivoluzionaria per una sinistra che usciva da un periodo di esasperato egualitarismo. Craxi capì che il sistema politico, per com’era organizzato, non reggeva, e aveva chiara l’ipotesi di una riforma che spostasse il potere dall’assemblea parlamentare al capo del governo. Riscoprì l’idea dell’orgoglio nazionale. Nel 1985 vinse alla grande contro il Pci la battaglia referendaria per abolire la scala mobile. Non sono mica dettagli».
Lei aggiunse anche «... ma la sua dismisura lo porterà alla rovina».
«A parte il disastro degli scandali e delle tangenti (ma siamo alla fine della sua storia), il Psi preso in mano da Craxi nel 1976 si muoveva da una posizione così minoritaria nella sinistra che, forse inevitabilmente, dovette esasperare la concorrenza con il Pci. Alcune grossolanità, che esposero Craxi agli eccessi e agli errori, si spiegano solo così. Da parte sua Berlinguer, dallo stile personale alla visione politica, era agli antipodi di Craxi, e la base comunista coltivava un assoluto furore anticraxiano. Per Berlinguer fu quindi impossibile trovare un’intesa con il Psi. Sarebbe stato possibile per la generazione successiva, quella degli Occhetto e dei D’Alema. Ma in quell’occasione fu Craxi a non cogliere le potenzialità dell’operazione e a non intuire che avrebbe potuto diventare il leader di tutta la sinistra. Così, dopo il 1989, scommise sul tracollo totale del Pci, e sbagliò».
Veniamo a oggi. Perché il riformismo sembra inceppato?
«Per prima cosa teniamo presente che negli anni Ottanta le forze riformiste avevano una consistenza elettorale superiore a quella odierna. Poi, capiamoci, la questione vera è un’altra: noi abbiamo passato una vita pensando che le riforme fossero un’estensione dei diritti, un’estensione delle possibilità, più welfare, più benessere e così via. Oggi è il contrario, le riforme non aggiungono qualcosa ma la tolgono. Soprattutto a sinistra, è difficile far digerire provvedimenti “lacrime e sangue” se non hai una visione forte da proporre».
Direbbe Pierluigi Bersani: «Ci è mancato il titolo del film: “Risanare per crescere”».
«Che bel titolo... cosa pensi di farci, portare in piazza masse in festa per chiedere la “fase due” del governo, cioè la riforma delle pensioni? Sinceramente, non ho mai visto qualcuno mobilitarsi per chiedere un “meno” di qualcosa».
Si può dire che l’affermazione di Silvio Berlusconi sia un effetto del fallimento della sinistra nel trasformarsi in una forza modernizzatrice?
«Che dire? In questo senso è possibile. Non direi mai che Berlusconi è erede del craxismo, però è anche vero che il berlusconismo del craxismo esprime alcune spinte, valori ed esigenze. Non a caso Berlusconi è un prodotto di un simbolo della stagione craxiana, la “Milano da bere”, la Milano della moda, della tv commerciale, dell’“edonismo reaganiano”».
Nel 1996, in Dimenticare Berlinguer, lei auspicava di «uscire in modo definitivo dalla tradizione comunista». Su Diario italiano leggiamo un articolo del 2003: «Fummo tutti stalinisti». E va bene. Ma una tradizione così importante davvero merita di morire tra le braccia di un Oliviero Diliberto?
«Sì, se lo merita. Eccome. Basta comunismo, questa parola mi crea un peso insostenibile. Mi si dirà: ma dietro gli errori c’era una grande visione ideale, bisogna ripensarla... Tanti bla bla bla. Oggi non ripenserei più il comunismo come un valore positivo».
Le polemiche sul «revisionismo storico» hanno fatto dire a qualcuno: l’antifascismo è diventato una religione civile minoritaria.
«Dico di più: non è mai stato maggioranza. Basta ricordare che il 25 aprile è diventato una ricorrenza nazionale solo dopo i moti di piazza a Genova nel 1960 (poi sono arrivati i sessantottini a rimproverarci che il 25 aprile non poteva essere una festa nazionale perché l’unica vera Resistenza era quella rossa, ma è un’altra storia... ). La mia idea è questa: ci sono stati dei periodi in cui l’antifascismo è parso maggioranza in ragione del silenzio un po’ rassegnato dei non-antifascisti, che erano e sono la parte maggioritaria del Paese. Può darsi che qualcuno tra noi abbia confuso il silenzio altrui con una reale egemonia.

Insomma, chi pensa a una vera fase di egemonia antifascista nella storia italiana sbaglia. Certo, se dico a chi frequentava le mie stesse sezioni comuniste che l’antifascismo non è mai stato cultura dominante, mi prende per matta».
(8. Continua)

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