Chi se lo fila padre Giancarlo Bossi, il missionario rapito domenica nelle Filippine? Era là per dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati: ora è nelle mani di tagliagole islamici e rischia la pelle. Eppure di lui non si parla. La notizia del suo sequestro non è stata messa in prima pagina da nessun quotidiano (escluso l’Avvenire: ma ci mancherebbe altro) e ieri, a sole 48 ore dal rapimento, a questa storia erano dedicate solo poche brevi da pagina 20 in poi, quando è andata bene: altri giornali non hanno speso neppure una riga.
Ma c’è di peggio.
Il governo italiano, leggiamo su un dispaccio d’agenzia francese (sottolineiamo: francese) ha fatto sapere alle autorità filippine che non si sogna neppure di pagare un riscatto. Anzi, sponsorizza una soluzione di forza, un blitz delle truppe filippine, con tutti i rischi che un’operazione del genere comporta.
È vero che pagare un riscatto per liberare un ostaggio è cosa molto, ma molto discutibile. Tuttavia non si può non ricordare che i nostri governi, da qualche anno a questa parte, hanno quasi sempre scelto quella via per far tornare a casa i nostri. L’ultima volta è successo non più tardi di tre mesi fa, quando nelle mani degli estremisti islamici c’era un inviato di Repubblica, Daniele Mastrogiacomo. Anche allora c’era la possibilità di un blitz armato.
I soldati inglesi erano pronti. Ma furono stoppati dal governo italiano, che preferì pagare perché temeva che durante un blitz qualcosa potesse andare storto, e che Mastrogiacomo ci rimettesse la pelle. Una preoccupazione che, evidentemente, per padre Bossi non c’è.
Insomma oggi la posizione del governo è la seguente: che se la sbrighino i filippini. Tanto, di pressioni per intervenire non ce ne sono. Chi è che parla, in Italia, di questo padre Bossi? Non i giornali, non le tv e non i pacifisti, così lesti a riempire le piazze quando si trattava di riportare a casa Giuliana Sgrena, Mastrogiacomo e le due Simone. Non la stiamo buttando in politica, non ne stiamo facendo una questione «di destra» o «di sinistra». Anche Quattrocchi e gli altri bodyguard diventarono un caso nazionale, e per giorni e giorni non si parlò d’altro.
Ricordate - nelle settimane di tutti quei sequestri - gli appelli dei sindaci, degli intellettuali, dei direttori di giornali? In queste ultime 48 ore di appelli per liberare padre Bossi ne è arrivato uno solo: lo ha lanciato tale Simone Rota, terzino destro della Pro Sesto, serie C. Nato nelle Filippine, è stato adottato da una famiglia italiana quando aveva sei mesi, e non vuole che i suoi connazionali si macchino di un crimine contro un italiano. Per questo ha fatto sentire coraggiosamente la sua voce: registrata solo dal Corriere della Sera, a pagina 29, sotto un titolo a una colonna. Non è colpa del Corriere, quella collocazione: è colpa di noi tutti, se lasciamo che a intervenire sia solo un terzino della Pro Sesto.
La verità è che a seconda di dove avvengono i sequestri, a seconda dell’importanza «geopolitica» del fatto, viene calibrato l’impatto mediatico.
Quelli dell’Irak o dell’Afghanistan sono rapiti di serie A. I tecnici del Niger sono rapiti di serie B.
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