Un mito da ridiscutere

L’esordio «boom», gli anni d’oro, l’oblio. Quando il gossip prevale sulla letteratura

Nei primi anni del dopoguerra, Truman Capote (nato a New Orleans nel 1924, morì a Los Angeles nel 1984) sembrava un ragazzino e aveva pubblicato solo un paio di racconti su Mademoiselle e Harper’s Bazaar ma era già uno degli scrittori americani più in vista e chiacchierati. Oscurando un altro emergente come Gore Vidal, il biondo folletto dell’Alabama dava del tu a Tennessee Williams e passeggiava mano nella mano con Arvin Newton, professore di letteratura americana, autore di importanti biografie di scrittori del XIX secolo e fiancé ufficiale. Con vocina acuta e infantile incantava la scena culturale come un novello Oscar Wilde spuntato dal nulla tra le fredde nebbie dell’Hudson.
Ma un successo tanto improvviso e travolgente com’era possibile? New York stava diventando il centro del mondo; Parigi e Londra, esaurite dalla guerra, languivano al confronto. E il pubblico anglofono attendeva una nuova nidiata di scrittori, dopo la «Jazz Age» di Francis Scott Fitzgerald e l’aitante attivismo di Ernest Hemingway. Nondimeno resta sorprendente e miracolosa l’ascesa capotiana.
Nel gennaio del 1948 la Random House diede alle stampe Other voices, other rooms (Altre voci, altre stanze), e nel giro di pochi giorni a New York non si parlava quasi d’altro. Nel bene e nel male tutto, a guardarlo dalla prospettiva triste e lontana del 2006, sembra già segnato in partenza: critiche ed elogi, pettegolezzi e scandalo, problemi familiari presenti e passati. Alcune testate stigmatizzarono la tematica omosessuale del romanzo. George Davis, il redattore che, dopo il rifiuto dell’austero e miope New Yorker, aveva pubblicato sui femminili i primi racconti di Truman Capote, parlò di «Huckleberry Finn finocchio». Paragone lusinghiero e denigratorio. E Nina Capote, che si lamentava da tempo per le inclinazioni del figlio, non ebbe più alibi per sperare di evitare la berlina e smetterla di ubriacarsi. La foto che ritraeva Truman angelo-perverso, sdraiato su una sedia a dondolo vittoriana, con una mano sulla patta, sotto al gilet a quadretti, era senza dubbio il pezzo forte della copertina e non lasciava dubbi sulla natura autobiografica dell’opera. Lo stesso fotografo, Harold Halma, sentì delle signore che facevano commenti scandalizzati davanti a una vetrina dove era esposto il libro.
Il destino del mago delle parole e dell’autopromozione procedeva dunque nel solco di una mitizzazione/demonizzazione che si è interrotta solo alla fine della carriera, per lasciare il posto alla sola demonizzazione. Ma verso l’inizio degli anni Ottanta, siamo ormai al Capote triste, solitario y final, gonfio di alcol, cocainomane e barbiturizzato. Il Capote che invece della annunciata Recherche americana (doveva intitolarsi Answered prayers, ovvero Preghiere esaudite) diede in pasto alla morbosità dei lettori di Esquire il racconto dei segreti inconfessabili dell’high society che frequentava. Uxoricidi insabbiati per il buon nome della famiglia, corna e altro ancora la cui rivelazione causò il suicidio di Ann Woodward, la «vedova nera» che tutti, compreso naturalmente lei stessa, riconobbero nel personaggio della «Côte Basque». Di qui l’isolamento del genio di Colazione da Tiffany, l’abbandono persino da parte di quella che chiamava «la mia flotta di cigni», il suo seguito di splendenti signore.
Terminata la demonizzazione e l’oblio postumo, si tira di nuovo fuori dal freezer della storia letteraria il santino dello scrittore scorticato e maledetto, segnato sin dall’infanzia abbandonata, il mago masochista, l’angelo perverso, e lo si scalda al microonde del grande schermo. A stappare lo champagne è stato, manco a dirlo, Pedro Almodóvar nel 1999. Nel film Tutto su mia madre, prima di essere travolto da un’auto, il piccolo Esteban fa in tempo a leggere il famoso brano della prefazione di Musica per camaleonti (ultima cosa buona, a detta di molti critici, realizzata da Capote come durante un estremo sforzo testamentario): «Poi un giorno mi misi a scrivere, ignorando di essermi legato per la vita a un nobile ma spietato padrone. Quando Dio ti concede un dono, ti concede anche una frusta; e questa frusta è predisposta unicamente per l’autoflagellazione».
Guarda caso Music for chameleons (Musica per camaleonti) è il primo libro che l’editore italiano di Capote, Garzanti, ha ristampato dopo anni di fuori-catalogo e di acquisti limitati alle bancarelle o al Meridiano Mondadori con l’introduzione di Alberto Arbasino. Poi sono venuti altri classici compreso In cold blood (A sangue freddo), il romanzo-verità che Capote scrisse sull’omicidio dei Clutter, famiglia felice del Kansas sterminata in una notte di follia da una squinternata coppia di assassini nel 1959. Capostipite del cosiddetto «non fiction novel» ovvero il romanzo-documento, il libro, uscito nel 1966, vendette, riscosse consensi e giudizi negativi (Norman Mailer lo definì un «fallimento dell’immaginazione») e richiese sette duri anni di gestazione. Sì perché Capote si trasferì «laggiù» per scriverlo e dovette attendere, scisso tra compassione e desiderio di concludere, che i due imputati penzolassero dalla forca per mettere la parola fine al libro. Uno dei tanti strazi della sua vita come si può ben capire leggendo quelle pagine coinvolgenti e intense come una tragedia greca. La pellicola di Bennett Miller, Capote (che tra pochi giorni arriverà anche in Italia), con Seymour Hoffman nei panni dello scrittore, è candidata a due Oscar (miglior film, miglior attore protagonista) e riprende quel rovello interiore, valido in particolare nei confronti di uno dei due assassini: Perry Smith, che condivideva con l’autore di A sangue freddo l’infanzia abbandonata e la madre alcolista. Intanto, Frassinelli ha ristampato per l’occasione la documentata e avvicente biografia di Gerald Clarke Truman Capote (uscita negli Stati Uniti nel 1988 e in Italia l’anno successivo), ormai introvabile da tempo, su cui è basato il film.


Ma se il cinema traina la sacrosanta riscoperta letteraria scavando nella vecchia ferita di quell’esperienza, i media si buttano sul personaggio, e in un certo senso i libri passano quasi in seconda battuta rispetto al gossip, chessò, sull’amicizia con Marella Agnelli. Insomma: per citare il titolo del primo romanzo-verità capotiano, in tutto questo can-can all’insegna della mitizzazione, non Si sentono le Muse. Ma tutto questo fa parte del Truman-show.

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