Jordi Pujol i Soley ha calpestato la moquette bordeaux del Parlament alle 14, due ore prima dell'udienza davanti alla commissione Affari Istituzionali. L'84enne per sette volte consecutive presidente della Generalitat , il grande vecchio del nazionalismo catalano che ha fatto di Convergencia i Uniò il partito di riferimento per la realizzazione -dentro le regole- del sogno indipendentista, sapeva che ora quel partito e quel sogno sono messi a dura prova proprio a causa sua.
Un tesoro da 581 milioni di euro spostato in paradisi fiscali da lui e altri componenti della famiglia (nelle inchieste per corruzione compaiono anche i figli Jordi Ferrusola e Oriol), frutto, secondo gli investigatori, di tangenti incassate in cambio di appalti. Soldi provenienti dall'eredità paterna ricevuta negli anni '80, si è difeso Pujol, che il 25 luglio aveva ammesso di aver tenuto a lungo capitali all'estero, e di aver poi aderito al condono. «L'esistenza di denaro all'estero può essere criticata, ma non prova che la sua origine sia illecita. Io non ho mai incassato nulla in cambio di decisioni politiche, come presidente ho guadagnato solo il mio stipendio», si è difeso ieri. «Se lei è corrotto lo dirà la giustizia, ma lei per 30 anni ha mentito a 6 milioni di Catalani che pagano le tasse nonostante la pesantissima crisi che stanno vivendo», ha incalzato Alicia Sánchez-Camacho, presidentessa del PP catalano. Che ha cavalcato il punto: la credibilità. Se la perde Jordi Pujol, l'emblema etico, l'uomo che ha difeso le autonomie territoriali nell'alveo della Costituzione dai tempi della transizione post-franchista, la perdono anche CiU e l'attuale presidente, il suo delfino politico Arturo Mas, dicono i detrattori del referendum. Ieri Sánchez-Camacho accusava: «Se Mas domani (oggi, ndr ) firma il decreto è per spostare l'attenzione da questo scandalo». Il decreto è quello che convoca ufficialmente la «consultazione non referendaria», così è stato vestito nella forma il voto del 9 novembre, per superare l'ostacolo posto dalla Costituzione, che riserva allo Stato la competenza a indire referendum.
A due anni esatti da quel 27 settembre del 2012 che diede inizio al «desafío soberanista», quando la Generalitat approvò la risoluzione affinché «il popolo di Catalogna, soggetto politico e giuridico sovrano, cominci il processo per rendere effettivo il suo diritto a decidere», i nodi da sciogliere restano molti. Madrid ha fatto ricorso contro quella risoluzione, annullata a marzo dalla Corte Costituzionale; ad aprile il Congresso ha bocciato la richiesta catalana di convocare il referendum. Un braccio di ferro sempre più muscolare, una rivalità quasi calcistica che somiglia a quella tra tifosi del Real e del Barça. La Catalogna intanto va avanti, e si organizza. Oggi Mas dovrebbe ufficializzare la data, intanto la macchina del voto è partita: a novembre dell'anno scorso erano già stati messi a bilancio 5 milioni di euro per coprire le spese elettorali, le 6mila urne - con due dei quattro lati di plastica trasparente, anche questo vuole essere un messaggio - sono in corso di produzione a Lleida. Per sopperire alla mancanza delle liste elettorali, che dipendono dal governo centrale, Mas ha chiesto a tutti i sindaci della regione di fornire le proprie liste comunali, mentre per i Catalani residenti all'estero (ma non in altre regioni iberiche) si sta allestendo un registro volontario. Resta da capire come sarà gestito l'ordine pubblico: il premier Mariano Rajoy ha detto chiaro e tondo che «los Mossos», i poliziotti catalani, non potranno presidiare il voto.
Anche su questo c'è dibattito: il corpo di polizia dipende dalla Catalogna, ma nello statuto c'è scritto che gli agenti esercitino le loro funzioni nel rispetto della Costituzione. E, al momento, il referendum resta formalmente illegale.Twitter @giulianadevivo
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