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American Caporetto. Il film dei 20 anni dall'inferno di Kabul

L'operazione Usa, il sacrificio dei soldati e infine il ritorno della sharia. Come un tragico gioco dell'oca

American Caporetto. Il film dei 20 anni dall'inferno di Kabul

Kabul (Afghanistan) «Lunga vita alla democrazia» urla una donna di Kabul, che protesta in piazza contro il ritorno al passato del nuovo Emirato islamico. La coraggiosa manifestazione è stata dispersa dalle fucilate dei talebani. Vent' anni dopo l'11 settembre, in Afghanistan siamo tornati alla casella di partenza, come un tragico gioco dell'oca. Nel 2001 agli americani non bastava liberare Kabul dai talebani del primo Emirato, ma volevano esportare la democrazia come se fosse un televisore o un frigorifero che funziona se lo attacchi alla corrente. Il risultato è che ora sono tornati al potere i talebani, facilitati da un frettoloso ritiro e dalla smobilitazione dello Zio Sam, stufo dell'Afghanistan, che ha trasformato «Kabul addio» in un disastro. Una Caporetto con nessun Piave all'orizzonte per ribaltare la situazione.

Il primo a prevedere l'11 settembre fu il leggendario Ahmad Shah Massoud che aveva combattuto tutta la vita contro i sovietici ed i talebani del primo Emirato islamico. «Al Qaida ha le sue basi in Afghanistan. I terroristi arriveranno nelle vostre città» mi diceva in un'intervista nel 1998 il leggendario «leone del Panjsher». Non ha fatto in tempo a vedere l'attacco alle Torri gemelle. Due jihadisti di Al Qaida camuffati da giornalisti l'hanno fatto saltare in aria il 9 settembre per far fuori una spina nel fianco. Massoud è la prima vittima dell'attacco all'America. Suo figlio Ahmad ha raccolto il testimone del padre cercando di guidare la resistenza alla travolgente avanzata dei nuovi talebani, ma il Panjsher, la valle invitta, è stata sconfitta con l'aiuto dei droni pachistani. A parte gli ultimi combattenti che non demordono nascosti nelle grotte o nelle gole dell'Hindu Kush. Come ai tempi dell'invasione sovietica di Budapest, «l'Occidente è rimasto a guardare sull'orlo della fossa seduto», abbandonando l'erede di Massoud.

I soldati italiani hanno versato sangue e sudore in Afghanistan con 54 caduti e 730 feriti, 150 gravissimi. Nei momenti delle battaglie più dure del 2008 il sergente della Folgore, Stefano Taggiasco, non aveva dubbi: «Dopo l'11 settembre questa è una battaglia fondamentale per l'Occidente. Se poi gli afghani abbracciano la democrazia bene, ma non dimentichiamo che in questo deserto corre la prima linea di difesa del nostro mondo». I suoi uomini saltavano in aria sulle trappole esplosive talebane e combattevano ogni giorno. Il sergente di ferro li incitava a non mollare: «Questa sabbia è la stessa da El Alamein a Bala Baluk», uno sperduto avamposto italiano, sempre sotto attacco, nella provincia di Farah.

La guerra l'abbiamo persa, per non parlare dell'illusione di esportare la democrazia. Oggi a Kabul il ministro della Difesa è Mohammad Yaqoob, figlio del mullah Omar, il fondatore guercio dei talebani. Il ministro dell'Interno è Sirajuddin Haqqani, capo della rete del terrore specializzata in attacchi suicidi, che ha sempre avuto ottimi rapporti con Al Qaida. Per di più è ricercato dall'Fbi con una taglia sulla testa di 5 milioni di dollari. È come se ai tempi delle Brigate rosse alla guida del Viminale ci fosse stato Renato Curcio. Al Qaida rinascerà sotto l'ala protettiva del nuovo Emirato, che sorge attorno alla fatidica data dell'11 settembre. Non solo una tragica beffa, ma un potente volano di propaganda che resuscita o alimenta le forze jihadiste del pianeta.

Tutti si chiedono come sia stato possibile il crollo così disastroso delle forze di sicurezza afghane e del governo appoggiati e finanziati dal 2001 della Nato. Qualche anno fa un comandante talebano mi spiegava che noi occidentali abbiamo «l'orologio e stabilite che quest' anno mettete in piedi un esercito, l'anno dopo la polizia e così via. Noi abbiamo il tempo e prima o dopo vi sconfiggeremo». Non solo così è stato, ma l'epopea talebana parte da lontano, da un lungo conflitto iniziato oltre 40 anni fa, quando l'Armata rossa invase l'Afghanistan. «Mio padre è shaid (martire) della guerra santa contro i russi. Io sono nato talebano e ho raccolto il testimone combattendo contro gli americani. Allora come oggi abbiamo vinto», spiega il comandante Mohammed Sharif Amadi offrendomi un pranzo di pane e ceci seduti a terra con le gambe incrociate. Dai russi agli americani, l'Afghanistan è sempre stato la tomba degli imperi.

Dopo l'attacco alle Torri gemelle, il 13 novembre 2001, i mujaheddin appoggiati dai B 52 americani fecero un grande regalo liberando Kabul dal primo Emirato il giorno del mio quarantesimo compleanno. In poche ore i bambini tornarono a far volare gli aquiloni, proibiti dai talebani, nel cielo limpido della capitale afghana. Oggi, dopo vent' anni di Occidente, i negozi di capi femminili alla moda a Kabul sono chiusi ed i centri di bellezza ancora aperti hanno dovuto dipingere di nero l'ingresso oscurando i volti attraenti delle donne. Un barbiere vicino al parco di Shahr-e Naw si lamenta che «i clienti sono drasticamente diminuiti perché i talebani dicono che bisogna farsi crescere la barba».

E agli angoli delle strade gli ambulanti vendono le bandiere bianche con la professione di fede musulmana in nero, vessillo del nuovo Emirato.

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