I morti sarebbero centinaia, circa 500 persone della minoranza religiosa degli yazidi, da giorni intrappolati sul monte Sinjar dall'avanzata degli estremisti sunniti, che minacciano d'uccidere chiunque non si converta all'Islam. I miliziani dello Stato islamico avrebbero gettato i corpi in fosse comuni, anche donne e bambini vivi, ha detto ieri in un'intervista telefonica alla Reuters il ministro per i Diritti Umani del governo iracheno sciita, Mohammed Shia Al Sudani. Ha assicurato di avere testimonianze «certe» di membri della comunità da giorni minacciata, ma nessuno ieri ha potuto confermare indipendentemente le parole del ministro, che ha parlato anche di centinaia di donne - 300 - fatte schiave. È comunque il timore di un massacro delle minoranze irachene - yazidi, cristiani e i curdi della città di Erbil, alle cui porte si trovano da giorni i miliziani islamisti - che ha spinto nelle scorse ore l'America a tornare con gli aerei da guerra nei cieli dell'Irak, tre anni dopo il ritiro delle sue truppe dal Paese.
In serata poi un nuovo affondo, quasi un preludio a un imminente colpo di Stato: la rete irachena Al Sumaria riferisce che truppe leali al premier, lo sciita Nouri al Maliki, avrebbero circondato i palazzi del potere nella zona verde di Baghdad. Pochi minuti prima lo stesso Maliki aveva annunciato personalmente alla tv che non intendeva rinunciare al suo mandato e aveva accusato il presidente, il curdo Fuad Masum, di aver violato la costituzione chiedendo pertanto al Parlamento di porlo in stato di accusa.
Nel terzo giorno di bombardamenti, ieri jet e droni americani hanno portato a termine raid contro postazioni militari dello Stato islamico alle porte di Erbil. Ed è grazie al varco aperto dai bombardamenti che circa 20mila dei 40mila yazidi sfollati e bloccati sul monte Sinjar - nel nord-ovest del Paese - hanno potuto fuggire, ha fatto sapere un funzionario della regione semi-autonoma del Kurdistan iracheno. I peshmerga - le forze combattenti curde - hanno riconquistato ieri due città, Makhmur e Gwer, strappandole al controllo dello Stato islamico, ha annunciato un portavoce militare curdo, il generale Halgord Hekmat, che ha anche spiegato come «l'appoggio aereo americano abbia aiutato».
Se ieri ci sono stati piccoli progressi militari e umanitari, la durata dell'operazione americana potrebbe però estendersi. Lo ha lasciato intendere sabato il presidente Barack Obama, nello spiegare che «non c'è una soluzione veloce per la situazione in Irak». Il leader americano, impantanato in una nuova crisi mediorientale e in un Paese in cui sperava aver chiuso il capitolo del coinvolgimento militare degli Stati Uniti, si trova già sotto il fuoco dell'opposizione repubblicana, che gli chiede un intervento più aggressivo, spinge per raid anche sulle posizioni dello Stato islamico in Siria e per una più importante fornitura d'armi all'alleato curdo. Per il New York Times , la riposta militare degli Stati Uniti di queste ore non è legata soltanto a un'alleanza forte con i curdi e alla minaccia umanitaria, ma anche al fatto che a Erbil ci sono il consolato degli Stati Uniti e una presenza militare americana. L'Amministrazione, intervenendo con gli aerei da guerra, ha scritto il quotidiano, ha voluto evitare una seconda Bengasi, dove nel 2012 un gruppo armato radicale ha attaccato la rappresentanza diplomatica degli Stati Uniti e ucciso tra gli altri l'ambasciatore.
Il timore di molti governi non soltanto regionali è che l'avanzata dello Stato islamico possa sconfinare. Il leader curdo Masoud Barzani ha chiesto agli alleati occidentali armi e ieri accanto al ministro degli Esteri francese Laurent Fabius ha detto: «Non stiamo combattendo contro un'organizzazione terroristica, ma contro uno Stato terroristico».
Obama, che è intervenuto militarmente suo malgrado, ritiene, appoggiato dalla Francia, che «in Irak non serviranno soltanto le bombe», ma una soluzione politica, e critica il premier Nuri Al Maliki, capo di un governo sciita che non ha saputo negli anni includere la frustrata minoranza sunnita.
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