L'occidente è morto a Kobane

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'Editore, un estratto di Kurdistan. Utopia di un popolo tradito (Salerno editrice, 2019), l'ultimo libro scritto dal nostro collaboratore Marco Gombacci

L'occidente è morto a Kobane

L’Occidente finisce a Kobane. Kobane, un tempo simbolo dell’eroica resistenza curda alle bandiere nere dell’Isis, finisce per essere nuovamente accerchiata, ma questa volta dall’esercito turco di Erdoğan membro della Nato e dalle milizie islamiste alleate di Ankara, con l’assenso di Stati Uniti ed Europa. «Non abbiamo altri amici che le montagne» è il detto che i curdi amano ripetere per ricordare la serie infinita di tradimenti da parte dell’Occidente, dalle prime guerre russo-turche di fine Ottocento, passando per il trattato di Sèvres fino al voltafaccia di Donald Trump dell’ottobre 2019 quando, in una mossa irruenta, ordinò il ritiro delle truppe statunitensi nella Siria nordorientale [….]. I combattenti che avevano strappato Raqqa allo Stato islamico e che avevano costituito una società fondata su libertà religiosa, parità tra uomini e donne e la convivenza tra diverse etnie, stavano per essere nuovamente traditi da quell’Occidente che prima li aveva usati nella lotta contro l’Isis per poi abbandonarli al loro destino. Con il tradimento nei confronti dei curdi, Trump non solo ha regalato una parte del territorio del Nord-Est siriano all’alleato turco della Nato, ma ha arrestato un processo democratico unico nell’area mediorientale, la cui straordinarietà era possibile testimoniarla recandosi in quel Rojava, idealizzato e realizzato in anni da intellettuali e attivisti curdi.

La prima volta che varcai il confine per entrare nella Siria nordorientale attraversando il leggendario fiume Tigri, culla della civiltà mesopotamica, la guerra era all’apice della violenza. l’assedio di Raqqa era in corso e gli attentati contro i civili di infiltrati jihadisti nella società erano frequenti. Mi ritrovai in un capanno sotto un tetto di lamiera a quaranta gradi all’ombra. Ero insieme a centinaia di sfollati siriani che stavano ritornando in Siria dal Kurdistan iracheno. Stavano andando a vedere cosa fosse rimasto delle loro case e chi dei loro familiari e amici fosse ancora in vita. L’artiglieria della Coalizione internazionale supportava le incursioni sul territorio delle milizie curde. I soldati che mi scortavano erano appena tornati dal fronte e guidavano una vettura militare nella quale risuonavano delle canzoni a tutto volume. Per far posto a tutti i passeggeri, mi avevano dato in braccio i fucili ancora caldi che fino a poche ore prima erano stati utilizzati per sparare ai tagliagole dell’Isis. Una strada sterrata ci stava portando ai primi posti di blocco. Notai, sul cruscotto della macchina, un crocifisso che oscillava a ogni buca nella quale il minibus fatalmente incappava. Alcuni di loro avevano tatuate sul collo delle croci, altri delle scritte in curdo oppure versetti del Corano in arabo. Mi colpì una giovane ragazza che teneva con fermezza il fucile tra le mani, pronta a usarlo in un qualsiasi momento.

Le notti prima di andare al fronte, le passai nelle comuni dove condividevo con membri della società locale tutte le ore del giorno, dalla stanza da letto ai pasti. […..] Incontravo quotidianamente i rappresentanti delle amministrazioni, delle associazioni delle donne, delle istituzioni religiose che mi spiegavano il meccanismo e le ideologie che li avevano portati a realizzare una rivoluzione culturale e sociale senza precedenti.

Ero partito per documentare l’avanzata militare

delle truppe curde e le loro recenti vittorie contro lo stato islamico ma ebbi l’impressione che stavo per scoprire una realtà molto più complessa di quella che mi ero preparato a incontrare: l’utopia del Kurdistan.

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