Afghanistan in fiamme

"Così i soldati afghani hanno scelto di non combattere"

Tra i soldati italiani che sono stati in Afghanistan prevale in questi giorni lo sconforto per l'arrivo dei talebani a Kabul, ma anche la speranza di non vedere vanificare i propri sacrifici

"Così i soldati afghani hanno scelto di non combattere"

No, il sacrificio non è mai vano”. È una delle frasi che più volte ha ripetuto in questi ultimi giorni Rocco Pacella, veterano dell'Afghanistan e presidente dell'associazione Good Guys in Bad Lands. Secondo il militare, l'avvento dei Talebani a Kabul non ha vanificato quanto fatto in 20 anni anche dagli italiani.

La sensazione che le 54 vittime del nostro contingente in Afghanistan costituiscano un sacrificio inutile ha attanagliato, ancora di più, le menti soprattutto dei parenti di chi nel Paese ha lasciato la pelle. Il ritorno al potere degli islamisti ha cancellato quello Stato sorto con l'arrivo dei militari internazionali.

Non tutto però può considerarsi vano e perduto. A spiegarlo è lo stesso Pacella in una delle sue ultime interviste. “L’impegno italiano – si legge nelle sue dichiarazioni – è stato preziosissimo nella regione occidentale, ne è valsa la pena”. Il perché è presto detto. Secondo il veterano, il lavoro svolto dalla coalizione internazionale ha fatto crescere un'intera generazione a stretto contatto con i valori occidentali.

Tra i militari reduci dall'Afghanistan è con questa convinzione che si prova a cancellare l'amarezza degli ultimi giorni. Per chi lì è stato ferito o ha visto propri commilitoni morire, l'avanzata talebana ha rappresentato fonte di profondo sconforto. Nessuno però vuole credere che due decenni spesi tra Herat e Kabul siano stati realmente cancellati.

I talebani, comunque vada, dovranno confrontarsi con una società che ha conosciuto altre alternative e altri modi di vivere. Per i soldati reduci questo è molto più di una semplice consolazione.

L'amarezza però è destinata a rimanere. Soprattutto perché i militari italiani hanno visto sciogliersi anche quell'esercito da loro addestrato. Le truppe afghane non hanno combattuto, non hanno posto molta resistenza, hanno deposto le armi e le munizioni lasciando terreno libero ai talebani.

Per Pacella però anche in questo caso, oltre alla naturale delusione, occorre andare oltre nell'analisi. “Sono stati per primi i soldati a non combattere – ha dichiarato dopo l'arrivo degli islamisti a Kabul – perché non si sentono appartenenti alla nazione Afghanistan come la intendiamo noi”. Vale a dire che lo Stato retto grazie al nostro intervento non era, secondo diversi reduci, quello che volevano gli afghani. Nessuno quindi si è voluto immolare al fronte per una causa non sentita come propria.

Adesso il pensiero dei militari è rivolto a chi con loro ha collaborato. Non solo i soldati addestrati, ma anche i traduttori, i mediatori, le guide locali. Tutta gente che ha prestato servizio per gli italiani e che ora teme ritorsioni da parte dei rientranti Talebani. Pacella, così come molti reduci, sono impegnati nel chiedere immediata evacuazione per loro e una degna sistemazione nel nostro Paese.

Gli ultimi giorni per i soldati italiani che in Afghanistan hanno percorso tratti importanti della propria vita sono stati difficili. Assistere all'avanzata nel Paese dei Talebani è stato come vedere correre il nemico a casa propria. Quel Paese però loro adesso lo conoscono bene e sanno che nulla sarà come prima di questi ultimi 20 anni.

Tanto basta per pensare che, per davvero, nulla è stato vano.

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