A Tokyo, tutti in fila per un selfie con Hachiko

All'uscita della stazione della metro di Shibuya c'è la statua dedicata al cagnolino che aspettò per dieci anni il ritorno del padrone, morto al lavoro

A Tokyo, tutti in fila per un selfie con Hachiko

C’è casino a Shibuya. Di giorno è percorsa da gente indaffarata, alle prese con il lavoro. Di sera, è il cuore pulsante della Tokyo giovane. Le luci, i negozi, i ristoranti: ogni dieci minuti, migliaia di persone che aspettano che il cicalino del semaforo pedonale dia loro la possibilità di far felici i turisti assiepati su da Starbucks, in attesa – come cecchini – di immortalare la folla che attraversa l’incrocio più frequentato al mondo.

Orientarsi a Shibuya è impresa che pare al limite dell'impossibile. Qui Tokyo svela quella che è la sua anima più moderna, quella di un affollatissimo (e per quanto possibile ordinato) formicaio umano. C’è però un angolino calmo, proprio a una decina di metri dall’incrocio che della capitale nipponica è diventato uno dei simboli più recenti. All’ombra di alcuni alberelli che la difendono dall’invasività dei kanji riflessi da potentissimi neon, c’è la statua di Hachiko, un cagnolino davvero eccezionale.

Una fila ordinata di persone attende, con pazienza, il suo turno. Vogliono tutti fare un selfie con lui. A ogni ora del giorno e della notte, Tokyo non dorme mai. E quindi nemmeno i suoi simboli possono riposarsi mai.

Hachiko era un cane di razza Akita. Piccoli e compatti, graziosissimi con le orecchie a punta e il pelo chiaro: i giapponesi, che ce li hanno mostrati in centinaia di cartoni, manga e anime, li adorano e hanno ragione a farlo. Negli anni '20 del secolo scorso, Hachiko aveva l'abitudine di andare incontro al suo padrone, di attenderlo all'uscita della stazione per accompagnarlo nell'ultimo tratto del suo ritorno a casa. Ma un giorno il suo padrone, un professore universitario, non tornò più. Lo aveva ucciso un ictus. Hachiko restò lì ad aspettarlo. Per dieci, lunghissimi, anni.

Fedele oltre la morte, passò poco che tutti si accorgessero di lui. Le famiglie che vivevano lì lo adottarono. E quando toccò a lui di lasciare questo mondo, ammirate dalla sua dedizione incrollabile, gli tributarono una statua in bronzo. Ebbe vita breve, però. Le ristrettezze della Seconda Guerra Mondiale indussero il governo giapponese a requisirla per fonderla, ricavandone così metallo per farne armi. Poi il conflitto, tragicamente come noto, finì.

Ma gli abitanti di Shibuya non si scordarono di lui. E così venne eretta una nuova statua alla sua memoria. Davanti a cui c’è sempre un’ordinata fila di turisti, cittadini, ragazzini, cosplay, otaku e salary men in pausa pranzo che attendono di potersi fare una foto con lui.

Nel 2009, la sua storia

(opportunamente americanizzata) divenne un film interpretato da Richard Gere. “Hachiko”, appunto. Che ha avuto il merito di far conoscere una grandissima storia d’affetto e di devozione che ha commosso le platee di tutto il mondo.

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