Enrico Groppali
Con Pietro Garinei, scomparso ieri a Roma, se ne va un pezzo della nostra vita. E non solo della cronaca effimera, scritta sul vento dei ricordi, della nostra lunga militanza di spettatori ammaliati dalla genialità dei suoi spunti, delle sue incantevoli boutade e delle sue bellissime canzoni. Che, insieme all'apporto decisivo dell'amico di sempre Sandro Giovannini rapito da un male inesorabile quasi trent'anni fa, ha regalato all'Italia la miracolosa ricetta di quel musical made in Italy che invano, negli ultimi anni, in tanti si sono sforzati di copiare senza mai raggiungere il livello d'alto artigianato, lo scrupolo professionale e quell'attenzione minuta e partecipata al costume come alle inveterate abitudini di casa nostra, che solo G (più G) possedeva. E, come un impareggiabile dono degli dei, era in grado di rinnovare da una stagione all'altra con un estro, un'inventiva e una vocazione alla parodia che, fosse nato in America, l'avrebbe - c'è da scommettere - reso più popolare di Neil Simon. Una volta sola, purtroppo, ebbi il piacere di incontrarlo nel suo ufficio al Teatro Sistina, divenuto grazie a lui, il simbolo di un genere che, dopo il tramonto della rivista coi boys, gli elefanti color di rosa e il sorriso smagliante di Wanda Osiris, sembrava non dovesse attecchire nello Stivale. Che diffidava di quello spettacolo nato sulle sponde dell'Atlantico pensando che avrebbe eliminato per sempre le messinscene pacchiane e coloratissime che assimilavano la vecchia rivista a una replica provinciale dell'Aida. Ma Garinei, che pure era nato come cronista sportivo e che alla Wandissima aveva regalato un song indimenticabile come Sentimental che per anni segnò, come una marcia trionfale, l'ingresso in palcoscenico della divina, non disarmò. E da autentico pioniere di un tipo di spettacolo che volle a ogni costo italiano creò dopo un debutto in sordina, nel'47, con Domenica è sempre domenica, un Attanasio, cavallo vanesio giocando (eravamo nel'52) tutte le sue carte su un diavoletto alto due spanne dall'incredibile nome Ranucci (poi ribattezzato Rascel) che dominò da un capo all'altro la scena dell'incantevole «favola in musica». E venne subito il successo. Confortato, a solo due anni di distanza, dall'ingresso nell'arena dell'intrattenimento giocoso dello charmeur per eccellenza dell'epoca, Carlo Dapporto, cui, in Giove in doppiopetto, i due G. affiancarono una ragazza aspirante ballerina classica, che tutti ritenevano inadatta al gran passo: Odette Bedogni, in arte Delia Scala che, abbandonata l'ambizione di diventare un'étoile, per acquisire la scioltezza necessaria al debutto in passerella si diede per qualche tempo al paracadutismo. Una rivelazione, Delia? Senz'altro. Ma l'infaticabile ditta - oltre ad assicurarsi l'esclusiva di quella monella dalla zazzera bionda cui dedicarono, da Buonanotte, Bettina dove la Scala apparve accanto a Walter Chiari fino alla consacrazione di Un trapezio per Lisistrata per terminare alla grande con il Giorno della tartaruga - continuò a innovare a getto continuo. Infatti Garinei il giorno del nostro incontro mi svelò, come a un vecchio amico, alcuni dei suoi segreti. Richiesto infatti di come e qualmente gli venisse l'idea di un nuovo spettacolo, quel signore dal sorriso allettante e dai modi da gentiluomo austro-ungarico, che mai si scordava di sottolineare en passant le sue origini triestine, mi confidò di dover tutto o quasi alla propria enorme curiosità di lettore. «Quanto ho imparato», mi disse, «da tutti gli autori che ho avuto sottomano! Perché io», continuò, «non faccio distinzioni tra Aristofane e la Sagan che, col suo romanzo osé, pubblicato a diciott'anni, mi ha ispirato Buonanotte, Bettina. Tanto che presto, se tutto va bene, ho intenzione di produrre una vita di Leonardo tutta da piangere e tutta da ridere, coi francesi che piombano a Milano, la fuga del Moro, la peste e una Gioconda malintenzionata che va a tentare il genio addirittura ad Amboise!». Parole indimenticabili in cui c'era tutto l'uomo che convinse Dorelli a vestire la tonaca di Don Silvestro in Aggiungi un posto a tavola e Mastroianni prima, seguito da Lionello poi, a impersonare nientemeno che Valentino in Ciao Rudy. Solo riguardo al suo capolavoro, quel Rugantino che - caso unico nel musical - finiva sotto la scure di un Mastro Titta di nome Aldo Fabrizi, Garinei era stranamente reticente. Forse perché a Broadway il mirabile spettacolo non aveva incontrato il favore sperato? Ebbi il coraggio di chiederglielo, ma lui stupitissimo mi smentì con una risata. «Sono triste», mi spiegò, «per un'altra ragione.
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