Politica

Nania: «Timori immotivati, non nasceranno 20 Italiette»

«Abbiamo definito le competenze, la difesa della salute ritorna al potere centrale»

Marianna Bartoccelli

da Roma

«Tutti parlano senza aver letto adeguatamente i 53 articoli della riforma, altrimenti le critiche sarebbero di tono diverso e nessuno urlerebbe alla frantumazione dell’Italia». L’accusa di Domenico Nania, capogruppo al Senato di An, uno dei padri fondatori della nuova Costituzione è rivolta a tutti coloro che si affannano il giorno dopo l’approvazione della riforma costituzionale a parlare di venti sanità, di venti istruzioni e così via. È un fiume in piena che vuole spiegare gli equivoci e le false interpretazioni e sa che da oggi sino al referendum dovrà spiegare di continuo che la riforma del Titolo V fatta dal centrosinistra aveva creato solo ambiguità e «determinato un altissimo conflitto tra Stato e Regioni».
C’è il pericolo di creare 20 piccole Italiette?
«Questa è la prima stupidata. Nei tre settori della devoluzione, sanità, istruzione, sicurezza, abbiamo definito le competenze, lasciando e ripeto lasciando, l’organizzazione della struttura sanitaria e riportando per intero allo Stato la difesa del diritto alla salute. La stessa cosa sull’istruzione: le norme generali, le scelte politiche, le leggi di riforma toccano allo Stato, l’organizzazione scolastica alle Regioni».
Detta così sembra che ci sia stato un grande equivoco, se anche la Cei interviene e chiede un federalismo mitigato e solidale per evitare che ci siano differenze dei servizi sanitari da una regione all’altra...
«No, la Cei non equivoca. Fa una giusta raccomandazione per realizzare un meccanismo perequativo che certamente deve essere realizzato, adesso che la nostra riforma fa chiarezza dei ruoli e delle competenze dopo la grande confusione del rovesciamento dell’art.117. Con quella manovra il centrosinistra stabiliva che tutto era delle Regioni tranne ciò che veniva espressamente citato. Adesso è al contrario: con questa riforma abbiamo riportato allo Stato la tutela dell’interesse nazionale».
Questo vuol dire che l’organizzazione della struttura sanitaria va alle Regioni e la salute allo Stato?
«L’organizzazione resta, sottolineo resta, alle Regioni, e la salute torna esclusivamente allo Stato. Il ministero della Salute era nato dall’eliminazione di quello alla Sanità. Si chiamerà sempre alla Salute, ma verrà potenziato perché non ci potranno essere più conflitti di competenza. In parole povere non ci potrà essere una Regione che usa la pillola abortiva e un’altra no. Questo è un problema di diritto alla salute, non di organizzazione sanitaria».
Lei sta dicendo che la legge sulla devolution ricentralizza alcuni poteri?
«Sulla devolution c’è un articolo, la riforma ne conta 53. Quando abbiamo iniziato a parlare di federalismo la legge aveva un solo articolo. Poi abbiamo cominciato a mettere su una legge di riforma molto più completa alla quale hanno contribuito ambienti di centrosinistra, l’Udc e noi di An in modo significativo. Abbiamo lavorato quattro anni e alla fine abbiamo fatto una legge che riduce i costi della politica, elimina il bicameralismo perfetto, definisce l’elezione diretta di chi governa, blocca qualunque possibilità di ribaltone, definisce il ruolo delle Regioni, restituisce la politica riformatrice allo Stato centrale e, infine, stabilisce che saranno sempre i cittadini a decidere delle riforme costituzionali».
Non è così già oggi?
«Anche questo è un equivoco diffuso. Oggi si va al referendum se la norma costituzionale non viene approvata dai 2/3 del Parlamento. Domani, invece, in ogni caso. Quella di oggi è una costituzione oligarghica che dà il massimo di potere agli eletti. La nuova costituzione ridà la parola ai cittadini, sempre».
Detta così è riduttivo chiamarla legge «di devoluzione»?
«Quella varata ieri è la grande riforma per una nuova Italia.

Non c’è però un copyright della destra: abbiamo inserito tutte le idee sostanziali maturate in questi anni anche a sinistra, come quella sul premierato e abbiamo riparato i danni fatti dalla famosa riforma del Titolo V realizzata in fretta e male dal governo di centrosinistra».

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