Come ha scritto ieri il nostro Filippo Facci, il boicottaggio delle Olimpiadi di Pechino - o perlomeno una decisa azione di protesta contro le nefandezze del governo cinese - avrebbe potuto vedere unite, per una volta, la nostra destra e la nostra sinistra. Al contrario, l'insolita alleanza ha sì avuto luogo: ma nella rassegnata accettazione, nella un po' ipocrita giustificazione secondo cui solo partecipando si può aiutare la democrazia, infine nella molto italiana convinzione di riuscire comunque a portare a casa qualcosa per noi.
Senza la pretesa di andare troppo in profondità, provo a cercare di spiegare perché sia la sinistra sia la destra hanno ceduto alla tentazione di stare con le orecchie basse; o, se preferite, perché sono cadute nel tranello cinese. Cominciamo dalla sinistra. Da sempre, la cultura progressista ha ritenuto di dover trovare un nesso tra sport e politica. O meglio: il nesso l'hanno sempre trovato tutti, compresi i regimi dittatoriali di destra, tanto che Hitler fece delle Olimpiadi di Berlino un mega spot per il suo ancor giovanissimo regime e i generali argentini fecero altrettanto con i Mondiali di calcio del 1978. Ma se l'estrema destra ha una tradizione di sapiente sfruttamento dell'evento sportivo, la sinistra ne ha una altrettanto radicata di sapiente organizzazione della protesta contro. Contro la finale di Coppa Davis del 1976, prevista in Cile, la sinistra italiana mise in piedi una potente campagna finalizzata al boicottaggio, per impedire ai nostri tennisti di partecipare. E per parlare dei già citati giochi olimpici di Berlino 1936 e Mondiali di calcio 1978, la storiografia di sinistra ha giustamente tramandato l'icona di Jessie Owens come simbolo della rivincita contro il razzismo nazionalsocialista (la faccia livida di Hitler al momento della vittoria del velocista nero è una pagina di storia della politica, non di storia dello sport) e ancora oggi l'allenatore argentino Menotti deve giustificarsi per avere - lui progressista - ritirato la coppa del mondo dalle mani del generale Videla. Insomma, la sinistra ha sempre ritenuto che con lo sport si fa politica, e che quando c'è da boicottare, si boicotta. Perché ora, nel caso delle Olimpiadi di Pechino, tace?
Credo - forse un po' grossolanamente, o forse non troppo - che nel mondo progressista italiano pesi a livello inconscio l'idea che la Cina appartenga comunque all'universo mentale della sinistra. Di comunista, il regime cinese, ha ormai solo i metodi liberticidi; per il resto, del proletariato se ne frega, così come se ne frega dei diritti civili, nuova icona del mondo liberal. Tuttavia la Cina, con la sua grande rivoluzione, è ancora ben presente in un certo Pantheon mentale: e - ripeto, a livello inconscio - questo fa sì che la nostra sinistra, sempre così pronta a mettere il becco nelle altrui violazioni della democrazia quando a violare è qualcuno di destra, di fronte a Pechino 2008 si ritrovi con il freno a mano tirato. Paranoie del genere sono del tutto estranee, ovviamente, al mondo della destra liberale. La quale, da un punto di vista ideologico, avrebbe anzi tutti i motivi per prendersi una doppia rivincita: da una parte, ha la dimostrazione che il «modello cinese» - contrapposto negli anni Settanta a quello sovietico - è esso pure fallito, a riprova dell'inapplicabilità del comunismo; dall'altra può ben dire: avete visto?, anche loro si sono convertiti al libero mercato.
Ma pure la destra, come la sinistra, tace. Perché? Anche qui azzardo una risposta forse troppo semplice: ma credo che il vero motivo stia nell'illusione di avere presto un nuovo grande mercato con cui fare affari. Non sono un esperto di economia, ma temo che proprio di illusione si tratti. I cinesi sono un libero mercato con le regole della servitù della gleba, stanno accumulando immense ricchezze e affari saranno loro a farne con noi. Non viceversa.
Michele Brambilla
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