«Nessun giudice vuol assolvere il Cav»

RomaOnorevole Sergio Pizzolante, in una lettera a Il Foglio lei ha riferito la frase che le ha detto il capo di un’importante procura, sul caso Ruby: «Non c’è oggi un giudice in Italia in grado di assolvere Berlusconi». Come ha reagito?
«Sono rimasto atterrito, impressionato. Anche perché parlava un magistrato che ritengo un raro caso di servitore dello Stato».
Crede che sia questa la verità?
«La frase dice tre cose: del clima interno alla magistratura, pregiudizialmente e politicamente ostile a Berlusconi e alla classe politica, vissuta come nemico; che c’è tra le toghe la sensazione diffusa che un giudice davvero terzo potrebbe, in questo clima, rovinare la sua reputazione e la sua carriera e che in magistratura ci sono servitori dello Stato, non accecati da odio politico e capaci di una lettura responsabile dei fatti».
Se un giudice rischia reputazione e carriera se non si uniforma alla linea antiberlusconiana, anche chi non è politicamente schierato viene condizionato.
«Ci sono i condizionamenti e anche una sorta di intimidazione verso chi non dimostra, anche ostentatamente, di voler combattere il centrodestra».
Lei parla di tre categorie di magistrati.
«Sì, quelli pregiudizialmente ostili a noi, quelli condizionati e intimiditi e quelli responsabili, che rimangono liberi».
Ma che faticano ad uscire allo scoperto, mentre la rumorosa minoranza dà l’impronta a tutta la magistratura.
«Queste persone non vogliono uscire allo scoperto, fanno il loro dovere nel silenzio, con grande senso dello Stato. E valutano negativamente i colleghi che fanno dell’esibizione del proprio potere e del proprio ruolo l’elemento fondante della magistratura».
Se i magistrati responsabili sono tanti, perché è così difficile che un giudice assolva il premier?
«La frase non va presa alla lettera, ma descrive la sensazione diffusa anche dentro la magistratura, che per Berlusconi sia difficile oggi difendersi dagli attacchi di una magistratura politicizzata e determinata».
Il modello del magistrato «impegnato» in politica nasce storicamente dalle correnti di sinistra.
«La radice storica è nella nascita di Magistratura Democratica, anche se la prima versione di Beria d’Argentine era liberalriformista. Poi, si è andati verso un carattere più ideologico dei concetti “democratico” e “progressista”. E la seconda versione si è incontrata con una connotazione autoreferenziale, corporativa, castale, dell’impegno associativo».
Come si esce da questa situazione?
«Non possiamo chiedere ai magistrati responsabili, credo la maggioranza, di risolvere il problema. La responsabilità è della politica, che deve reagire e mettere in campo una riforma della giustizia che ponga sullo stesso piano accusa e difesa, e sopra un giudice terzo. Ci vuole separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati».
Si può realizzare la riforma in questo scorcio tumultuoso di legislatura?
«È uno degli elementi fondanti del Pdl e si è scontrato con l’ostilità preconcetta della sinistra falso-progressista e coni troppi veti di pezzi del nostro schieramento».
Sono state le divisioni della vecchia maggioranza a bloccare la riforma?
«Sì e penso soprattutto ai pregiudizi di Fini e dei suoi. In questi 16 anni e 8 di governo non abbiamo mai avuto una maggioranza compatta per cambiare la giustizia.

Ora per la prima volta potremmo avere i numeri. E forse proprio per questo si assiste all’ennesima aggressione dei magistrati, che se prima era contro Berlusconi e i suoi più stretti collaboratori e oggi si allarga a tutto il Pdl».

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