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New York, Ground Zero dieci anni dopo Gli Usa con Bush: il guerriero oscura Obama

Applausi per l’ex presidente, silenzi per il leader in carica. Il Paese dà al soldato George il posto che gli storici gli hanno negato. Barack ha solo concluso la cattura di Bin Laden voluta dal predecessore. Lacrime e commozione all'inaugurazione del Memorial per le vittime dell'11 Settembre. LE FOTO

New York, Ground Zero dieci anni dopo 
Gli Usa con Bush: il guerriero oscura Obama

La storia s’è ripresa George W. Bush. L’ha portato a Ground Zero per riabilitarlo in mondovisione. Dategli un posto. Applausi per lui, silenzio per Barack Obama. Dieci anni dopo, Bush è quello che per troppo tempo non è stato: il presidente di un Paese ferito a morte che s’è caricato sulle spalle la più grande tragedia terroristica che la storia ricordi. L’hanno massacrato, distrutto, incolpato di ogni cosa, compreso l’11 settembre stesso. Gli hanno detto che era l’immagine dell’America sbagliata, imperialista e aggressiva, quella insomma che aveva esasperato i nemici da costringerli a un attentato così. Gli hanno dato del pazzo guerrafondaio, quando è andato a vendicare i morti del World Trade Center in Afghanistan. Il suo Paese per anni s’è chiesto: giusto o sbagliato? Ha reagito bene o male? Ora, ha deciso. Simbolicamente e definitivamente: dieci anni dopo l’America sta con Bush, con la sua reazione, con la sua rabbia gridata dalle macerie di Ground Zero quattro giorni dopo la strage: «I nemici credono di essere invisibili. Ma si stanno sbagliando. Saranno scoperti: coloro i quali hanno fatto la guerra agli Stati Uniti hanno scelto la loro stessa distruzione».
Applausi, adesso. Si sentono, qui a Ground Zero. Due volte: quando sale sul podio e poi alla fine del suo intervento. Applausi, sì. A lui e alla frase di Abramo Lincoln che cita nel suo discorso: «L’America non sarà mai distrutta dall’esterno. Se vacilliamo e perdiamo le nostre libertà sarà perché ci siamo distrutti noi stessi». Il decennale dell’11 settembre è qui. Perché è la risposta a chi pensa di attaccare ancora gli Stati Uniti: la paura di un altro attentato ha alimentato i giorni precedenti all’anniversario, eppure New York non ha smesso di vivere. S’è fermata, ha capito: check point agli angoli delle strade, taxi e auto fermate per controlli. Niente polemiche e niente angosce. Se c’è ancora un nemico che vuole colpire, deve sapere che questa città e questo Paese non si fanno prendere dal panico. Hanno paura, però ci convivono, perché la citazione di Lincoln è già nel patrimonio genetico collettivo: nessuno in America pensa che qualcuno possa abbatterla dall’esterno.
Gli Usa, allora, oggi sono il cuore di Bush più della testa di Obama: il presidente non prende applausi, stringe mani, alza gli occhi al cielo. C’è rispetto per lui, ma non trasporto. Semplicemente, George W. nel 2001 c’era. Lui sa. Lui ha cominciato una guerra, Obama l’ha ereditata e la sta conducendo con le stesse tecniche. Barack ha ucciso Bin Laden perché Bush gli ha dato la caccia ovunque. È un orgoglio macabro, ma comprensibile: lo vedi nelle facce dei parenti delle vittime che pronunciano i nomi dei loro familiari scomparsi nell’attacco alle Torri. Nessuno si chiede se la morte di Osama sia stata giusta o sbagliata. È lui che l’ha voluto, pensano. Questa volta sì: è lui che se l’è cercata. E lo sappiano i fedeli di Al Qaida e tutti gli antiamericani del mondo: la guerra continuerà. Ecco perché Bush oggi è il centro del centro. È un simbolo di appartenenza, checché ne possano dire i suoi detrattori europei. Un’appartenenza ostentata, retorica, eppure incredibilmente discreta. L’ex presidente non aveva mai partecipato attivamente alle cerimonie di ricordo dell’11 settembre. È tornato a Ground Zero ieri, s’è messo in secondo piano come protocollo prevede. La selezione l’ha fatta la gente: l’applauso l’ha rimesso in prima fila, dove gli storici non l’avevano mai messo più per pregiudizio che per giudizio. C’è stata una voglia di rimozione del bushismo interessata: ci doveva essere uno sbagliato, per far pensare che ci fosse bisogno di uno giusto. Ha pagato Bush, fino a ieri.
L’America l’ha riacciuffato: vieni qui, al tuo posto. Non piacerà tanto al politicamente corretto europeo che ha cercato di far prendere le distanze dal dolore americano: l’Europa e il resto dell’Occidente pensavano così di ritrovare se stessi, almeno. Invece hanno trovato, un anno dietro l’altro, la stessa dinamica, un ciclo fatto di assuefazione al terrore: i nemici aggressivi e noi sempre un po’ impacciati. Le teorie del complotto si sono sviluppate per questo: nel tentativo di dimostrare che i veri cattivi non erano barbuti e fondamentalisti, ma erano quelli che piangevano tremila morti. Gli Stati Uniti hanno avuto compagnia sul campo, in Afghanistan, ma hanno molto ballato da soli nello spirito. Hanno piantato le bandiere nei prati, sulle finestre, sulle magliette, su tutti i grattacieli di Manhattan. Ce ne è una, adesso, a Ground Zero, che domina tutto: il memoriale coi nomi di tutte le vittime, le cascate che sprofondano in quelle che erano le fondamenta delle Twin Towers, gli alberi che circondano tutta l’area che dieci anni fa era un cumulo di macerie e morte. Bush ha parlato guardandola, Obama anche. Il mondo l’ha vista, ricordando che nel 2001 c’era quella frase: «Siamo tutti americani». La storia ha raccontato un’altra verità.

Come con Bush, al contrario.

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