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Il nobile artista di un calcio che non c’è più

Né Pinturicchio, né Godot. Ma Alessandro Del Piero e basta. Calciatore d'arte, un gol con la nostalgia di un tempo che se ne è andato ma non è affatto smarrito. A trentasette anni si può ancora correre, gioire, mostrare la lingua, resistendo al logorio del calcio moderno che tutto brucia e, insieme, tutto vorrebbe conservare. Una notte speciale, nel nono anniversario della scomparsa di Gianni Agnelli che con Del Piero non fu mai così tenero e affettuoso come gli riuscì con Boniperti e Sivori, Platini e Zidane. Perché Alessandro Del Piero mai gli fece le fusa, per educazione e carattere, preferendo piuttosto farsi coccolare (cocco di mamma lo definì l'altro Agnelli, l'Umberto) dai tifosi, dalla stampa e dallo spogliatoio. Un gol speciale e una notte da ricordare, dunque, prima stella filante nello stadio nuovo che cerca ancora un nome da consegnare alla storia ma ha già ritrovato la vecchia Signora e il suo capitano, come li aveva lasciati prima di perdersi nello tsunami del duemila e sei. Del Piero ha resistito alle lingue maligne, a chi lo considerava gonfio di doping, a chi lo accusò, pensate un po' che tipo di accusa idiota e ignorante, di omosessualità, a chi lo ha salutato come una vecchia gloria al passo di addio. Quest'ultimo è Andrea Agnelli gaffeur per sbaglio dinanzi agli azionisti già avvelenati per i risultati magrissimi della squadra e dal bilancio pesantissimo del club. Quel giorno poteva nascere la guerra e finire la pace. Agnelli avvertì in ritardo di avere commesso un errore madornale di comunicazione e chi gli sta appresso nemmeno lo consigliò per il verso giusto e migliore. Del Piero, con la lettera di fine rapporto annunciata dal datore di lavoro e pubblicata dai giornali, non fece nemmeno una smorfia, non pronunciò parole di critica e di rabbia, sapendo che il campo avrebbe parlato in vece sua. Il campo.
La prima fetta della stagione è andata via trionfalmente per la squadra bianconera ma non per lui. Molta panchina, qualche umiliazione davanti alle telecamere con le lezioni impartite dal vice di Conte su come giocare gli ultimi minuti di una qualunque partita, lui che di partite e di gol ha raccolto una enciclopedia, ma tutto tenuto sotto vuoto, secondo stile e linea di condotta. Del Piero ha saputo aspettare presentandosi, forse nell'appuntamento migliore, la sfida di coppa Italia contro la Roma, la nuova Roma di un vecchio campione come lui medesimo, Francesco Totti. Lo scambio di gagliardetti tra i due capitani è stato un quadro da collezionisti, settantadue anni di football, di trionfi e di amarezze, di lividi e ossa rotte, di titoli mondiali e delusioni improvvise, di fischi e di applausi. Del Piero e Totti sono loro i gagliardetti viventi, dicesi anche bandiere, di un calcio che fu e non è più. Del Piero inguaia Agnelli Andrea che adesso dovrebbe ritirare la lettera di liquidazione e riflettere sul futuro prossimo, magari, forse, chissà, della Juventus in Europa, una Juventus che si presenti senza Del Piero, come testimonial, come uomo simbolo, che Juventus sarebbe? La stessa? Mmh. Non è un assillo ma diventa un tormentone diurno e notturno, perché, come disse Gianni Agnelli di Platini a fine carriera: «Chi sa sa e chi non sa non saprà mai».
Ecco, Del Piero sapeva e continua a sapere mentre altri continuano a studiare, cercando di apprendere su libri di testo astrusi. Per onestà professionale ammetto di essere caduto anche io nell'errore fatale e ignorante: le critiche a Del Piero sono state a volte eccessive ma soltanto perché ai campioni si chiedono sempre prestazioni che li differenziano dai gregari e Del Piero è stato, allora, Godot, il vagabondo sconosciuto che mai ha raggiunto i suoi sodali e anche Pinturicchio, allievo di Raffaello che, per l'autore della battuta, sempre Agnelli, l'avvocato, era Roberto Baggio. Inutile inseguire il passato. Un gol ha restituito Del Piero al presente e al futuro. E alla Juventus.

Basta e avanza perché il calcio riesca a sopravvivere all'aria velenosa che respira ogni giorno.

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