Noi, cresciuti in un lunapark postmoderno

Siamo stati definiti la generazione del disimpegno e del riflusso. Una generazione frivola, edonistica. I nostri ricordi non sono epiche lotte contro i celerini, sogni di fantasia al potere, o vertigini visionarie che vogliono cambiare il mondo. Non abbiamo strappato i sampietrini per lanciarli contro un avversario politico, né abbiamo mai avuto il desiderio di appartenere a qualche gruppo che possedesse una verità superiore. Ci piacevano le cose vicine, più a portata di mano. Siamo stati i primi postmoderni. Non ci siamo certo spaccati la testa sul materialismo marxista, e di certo la dialettica non ci stava molto a cuore. La vita era un Lunapark di forme. Avevamo capito bene che certe chiacchiere e certi valori non valevano più niente. Che le ripetizioni consumavano qualunque bella formula, qualunque bella morale. La novità della vita ci stava intorno con una forza selvaggia e noi sapevamo leggerla, che ci piacesse o no.
Quando ripenso a quegli anni mi vengono in mente le discoteche, i baci sui divanetti, i primi cocktail, la bellezza patinata delle ragazze. La disco music. Quelle grandi compagnie dove ti sentivi a casa, il ruggito delle moto 125, i primi viaggi nel mondo, i cartoni animati giapponesi (una volta, ricordo, ho sostenuto di fronte a un amico professore di filosofia del diritto che la mia vera educazione morale era stata Lupin III). Ricordo i vestiti firmati, le passeggiate sul corso, le partite di Risiko che rovinavano le amicizie. E Paris Texas di Wenders, Il nome della rosa di Eco, i Duran Duran e Bruce Springsteen. Ricordo che ci divertivamo come pazzi, che divertirsi era una religione, che la vita non poteva essere che un lungo divertimento. Ed è questa, credo, la cosa straziante e straordinaria di quegli anni, verso cui proviamo ancora una grande nostalgia. Che riuscivamo a divertirci. Non ci hanno dato nulla e noi ci divertivamo alla faccia loro. Ci hanno lasciati soli, senza idee o con idee già morte, e noi ci divertivamo lo stesso. Anzi di più. La Thatcher nel 79, Reagan nell'80: il mondo stava cambiando velocissimamente e nessuno ci aveva detto niente, nessuno ci ha avvertito. Ci siamo persi in questa lunga e meravigliosa festa, aspettando un dopofesta che per ognuno di noi è puntualmente arrivato. Come quelle mattine che dopo la discoteca ci si svegliava con il mal di testa, un po' di depressione, e il desiderio che la nuova giornata passasse veloce. Abbiamo fatto festa e ci siamo risvegliati dalla festa. Siamo cresciuti e abbiamo combattuto. Tutto da soli. E la cosa straordinaria è che siamo riusciti sempre a divertirci.
Quando si pensa a quegli anni, si pensa a una storia che non è ancora stata scritta e che abbiamo il dovere morale di scrivere. Ci costringono a pensare che i decenni decisivi sono stati i Sessanta e Settanta, e che le generazioni che li hanno vissuti hanno maggiori diritti di noi di ricordare. Credo di no: credo che noi degli Ottanta abbiamo una storia forse più intima, meno pubblica.

Ma non per questo meno forte. E dobbiamo tornare a guardare a quegli anni (anche se a noi piace poco guardarci indietro) con nostalgia e orgoglio.

*Autore di Fùtbol bailado e Tutto il mondo

ha voglia di ballare

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