Da noi si fanno pochi documentari? A Lipsia danno la colpa al Cavaliere

Non ci si può fare niente: lo stile italiano esce sempre dai confini nazionali, contaminando usi e costumi esteri, cambiando il quotidiano di interi popoli. Certo, spesso la riproposizione oltre confine del nostro life-style non riesce al meglio, ma tant’è. E così capita che te ne vai a Lipsia, (nella Sassonia tedesca) per assistere al «Festival internazionale del documentario e del cinema di animazione», conclusosi lunedì scorso, e ti becchi dal palco una tirata antiberlusconiana che ti fa sentire subito a casa (magari di giovedì sera, quando Santoro santoreggia sul Due).
Il tutto è nato dal fatto che in gara al festival - uno dei maggiori del settore a livello mondiale - c’erano pochissimi italiani. E nel corso della conferenza stampa finale, a chi gli chiedeva i motivi di una così scarsa partecipazione italica, il direttore dell’evento Claas Danielsen rispondeva: «È semplice: quella italiana è la peggiore televisione in Europa e la colpa è di Berlusconi». Proprio come trovare il ragù pronto entrando in una casa galleggiante sulla Senna: un inatteso profumo di casa.
E così per i vertici del festival non è questione di creatività, di risorse o di un mercato internazionale tutto concentrato in Nord Europa: no, è stato il premier a provocare una moria di talenti italiani nel settore. «Quella dell’Italia è una situazione molto triste - ha attaccato Danielsen -, la televisione fa finta di produrre documentari ma in realtà li acquista dalla Bbc e non lo dichiara neanche. E questo perché c’è Berlusconi al governo». Logica di ferro.

Comunque ci permettiamo di ricordare a Danielsen che, seppur pochi, alcuni italiani - quelli capaci di squarciare la cortina di ferro anti-documentari - in concorso c’erano: Marco Pasquini, Julia Gromskaya e Saul Saguatti, selezionati tra 2578 candidati, in gara rispettivamente con il documentario «Gaza Hospital», «L’anima mavì» e «ransit City #2 - Roma Astratta». Magari poteva spendere due parole anche per loro.

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