Caro Lussana, il contributo di Alessandro Casareto sul tema dell'identità ligure mi stimola alcune riflessioni. A ben vedere, nella potente figurazione di Enea che lascia Ilio, con il padre Anchise, il figlioletto Ascanio ed i penati, accanto al sicuro richiamo affettivo ai propri valori (i penati, appunto), si ravvisa piuttosto l'epopea della migrazione. «Io, la mia patria or è dove si vive» disse il Poeta, con uno dei più affascinanti anacoluti della letteratura italiana. Si ravvisa proprio la negazione di ogni principio fondante delle teorie (ahimé, quanto deleterie!) sulla purezza della razza, sull'incontaminata linearità della stirpe e simili.
Lasciamo agli etnologi il loro lavoro, difficile, spesso controverso, ma il cui portato, comunque, al di là dell'affinamento culturale, sicuramente commendevole per tutti, vale, in soldoni storici e, tanto più, politici, men che nulla.
Parlare di etnia ligure o, ancor più, genovese, è un totale non-senso. Genova, quale che sia la matrice linguistica del suo nome, è quella che oggi conosciamo (e amiamo) per un divenire storico che ha visto un incrociarsi di razze, usi e costumi che anche i più raffinati studiosi stentano a discernere nell'aggrovigliata matassa di stili, suoni, culture... La cucina, la moda, l'arte, la lingua stessa, ne sono i più indiscutibili testimoni. A ben vedere, il melting pot fu all'apice, quando all'apice era la potenza della città e delle repubblica; la sua decadenza coincide proprio con la sua marginalizzazione rispetto ai flussi esterni, con la sua (forzata) chiusura in se stessa.
Delle Riviere, basta ricordare i ritornelli con i quali ciascun paese sfotteva quello vicino: «Xxxx a l'è tæra antiga, figge belle no ghe n'è miga; quelle pòche che ghe son, son ciù neigre do carbon», volendo significare che sono figlie d'incroci con i saraceni o, comunque, con popoli del basso mediterraneo. Cerchiamo di non cadere prede dei costruttori di miti e storie locali destinate a nascondere il fatto che liguri, toscani, lombardi, perfino siculi, visti da pochi chilometri di distanza, non si distinguono o quasi. Non inventiamo sfumature assurde, quelle che Freud battezzava come narcisismo delle piccole differenze, per fomentare odi innaturali, non balocchiamoci con discutibili letture di controversi fatti della storia più o meno lontana per titillare una memoria inesistente.
Shakespeare fa dire a Troilo (Troilo e Cressida) di non voler morire per Elena: «È un tema troppo poco sostanzioso, per la mia spada». È assurdo morire per un'Elena un po' puttana.
Ciò detto, tutto il resto mi sta bene. Perchè, se per Elena, comunque una gran bella donna, non voglio morire, per lei voglio vivere. Fuor di metafora, mi piace essere il cantore delle piccole differenze. Nei Balcani, si accendevano furibondi dibattiti su chi abbia inventato i biscotti allo zenzero a forma di cuore, se i serbi o i croati. Scorreva il sangue, per i biscotti. Assurdo, nevvero? Ma, ad Alassio, chiamano, appunto, baci di Alassio, quelli che, a Laigueglia, chiamano baci di Laigueglia e, in molti paesi della riviera, per imbibinare i turisti, chiamano Pan del pescatore, con tanto di leggenda incorporata, il nostro comunissimo ed ottimo Pandolce (pandöce) Per continuare a mangiarlo, perchè possano mangiarlo i miei figli, apprezzandolo e non solo per affetto filiale, sono disposto a fare qualcosa, perchè i penati, un po' bastardi, ma a me cari, di Genova non finiscano in un sottoscala, sono disposto a fare propaganda. Perchè è giusto, perché è bello, perché mi piace.
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