"Non ci piacciono i robot fanno male ai provoloni"

Il nonno, lattaio napoletano, si trasferì a Cremona: "Per capire i lombardi aveva l'interprete. La nostra fortuna? Una ricetta segreta"

"Non ci piacciono i robot fanno male ai provoloni"

Parla della sua famiglia e della sua azienda come fossero la stessa cosa. Legatissimo alla storia dei suoi antenati e al ricordo dei profumi di quei formaggi che, oggi come 140 anni fa, sono nati dalla stessa ricetta segreta del bisnonno. Lui è Gian Domenico Auricchio, 61 anni, «quello del provolone», come lo definì il presidente Carlo Azeglio Ciampi quando si conobbero. Assieme ai due fratelli gestisce una delle aziende che hanno marchiato la nostra tavola. E quella di mezzo mondo.

Da Napoli a Cremona per produrre il provolone. Di fatto il suo bisnonno fece l'unità d'Italia con il formaggio poco dopo l'unità d'Italia ufficiale.

«In Campania commerciava taralli, poi ebbe l'intuizione della mozzarella stagionata, il provolone, e si dedicò a quello. Durante la terza guerra d'indipendenza salì al Nord per combattere. Conobbe Pastrengo, Peschiera e capì che in pianura padana c'è molto più latte che al Sud, dove invece non bastava mai per le produzioni. Allora cominciò a far realizzare la sua ricetta alle cascine. E pagava con le monete d'oro, i marenghi, che si faceva cucire nell'interno giacca per non essere derubato dai briganti durante i viaggi».

Come venne accolto al Nord?

«Nel 1885 lo sintetizza bene Stefano Jacini in un suo scritto che raccontava di un lattaio napoletano che si era trasferito al Nord per accaparrarsi il latte di alcune tenute suscitando grande meraviglia. Ma fu ben accettato, scriveva jacini, non appena si capì che offriva una lira in più dei concorrenti».

Da lì cominciò tutto.

«Sì, poi mio nonno alla fine dell'Ottocento si trasferì a Cremona con qualche difficoltà a capire il dialetto cremonese. Inizialmente alloggiò in un albergo vicino alla stazione, per muoversi con facilità. Poi decise di costruire casa e azienda a due passi dai binari, dove tuttora abitiamo e abbiamo i nostri uffici in una sorta di quartier generale di famiglia. E sul soffitto, con lo stucco, si fece disegnare il suo Vesuvio».

Siete alla quarta generazione di Auricchio. Ma nelle vostra azienda le donne di famiglia non hanno mai avuto ruoli. Come mai?

«È vero ma le donne sono sempre state fondamentali. Pensi che nel '44 bombardarono l'azienda, morirono 10 persone, mio padre rimase sotto una trave ma si salvò. Le banche non ci davano i fidi per ricostruire. Allora mia nonna e la cognata impegnarono tutti i gioielli di famiglia per dare una garanzia alla banca. Grazie a loro l'azienda ripartì. E tuttora mia madre, 88 ani, è molto presente: guai a non invitarla a una cena aziendale, si offende mortalmente. La mamma è ancora proprietaria di un caseificio di parmigiano reggiano e vende la sua produzione alla Auricchio. E mica ci fa sconti».

Sulle nostre tavole il suo cognome è diventato sinonimo di formaggio. Quando avvenne il grande passo?

«Lo raccontò bene un articolo del Borghese di Longanesi che descrisse un manifesto apparso a Napoli con l'immagine di una bella donna discinta e una scritta sulla coscia, opera di un ragazzaccio sfaccendato: Questo è un provolone di Auricchio. Il Borghese disse che se un formaggio riesce a solleticare la fantasia erotica di un ragazzino napoletano, allora ha raggiunto il successo e la popolarità».

In famiglia vi tramandate la ricetta segreta del bisnonno Gennaro. Può svelarcela, almeno in parte?

«Il segreto sta nel caglio speciale della ricetta del provolone ma anche nella passione, nell'entusiasmo. Dopo 140 anni siamo tre fratelli e andiamo ragionevolmente d'accordo. E so che non è frequente. Grazie a questo, negli anni della crisi abbiamo fatto diverse acquisizioni, forse proprio nel momento più difficile. E li se non si decide assieme di rinunciare ai dividendi e rilanciare, non si va da nessuna parte. Eccola la ricetta».

Davvero non litigate?

«Discutiamo, questo si. Ma non litighiamo. Anche perché non abbiamo cause pendenti. Ne affrontammo una qualche anno fa perché il paese lucano di Moliterno disse che usavamo impropriamente il loro nome per chiamare un nostro formaggio. Anche in quel caso la soluzione arrivò dai registri del nonno e dalle fatture del 1901 che testimoniavano che già allora Auricchio esportava in America il Moliterno Auricchio».

Anche i vostri dipendenti si succedono sul posto di lavoro di padre in figlio.

«Alcuni sono con noi da quarant'anni. E lavorano come se l'azienda fosse loro. Nel 1979 ero appena arrivato, mi mancavano ancora 11 esami di giurisprudenza e mio padre mi volle a lavorare per mezza giornata, tutti i giorni. Un venerdì di novembre, nel pieno della produzione per Natale, scoppiò un incendio che fece danni grossi e ricoprì tutto di cenere. Gli operai lavorarono tutto il fine settimana e lunedì riuscimmo a ripartire».

Il concetto di azienda-famiglia ricorre.

«I miei genitori sono un connubio di napoletanità e parmigianità, e così sono sempre stati anche i nostri menù della domenica. Intendo dire che ci hanno insegnato ad essere aperti a tutti. In anni di incarichi in rappresentanza delle imprese, un po' di corazza l'ho costruita, ma mi comporto egualmente con chiunque».

Negli stabilimenti non utilizzate robot per la lavorazione. Non è un po' anacronistico?

«Vero. Ma abbiamo un'ossessione per la qualità. C'è una bella differenza nel fare l'impasto del formaggio a macchina o a mano. Se formi a mano riesci a non chiudere pori che altrimenti si chiuderebbero e quindi quando metti l'impasto in salamoia conserva una sfogliatura più morbida e più armonica. Però non siamo refrattari alla modernità. In certe fasi, ad esempio il confezionamento o il taglio del prodotto, usiamo macchinari all'avanguardia. E così nella lavorazione del latte, per analizzarlo e testarlo. Però la parte centrale della produzione l'abbiamo voluta lasciare intatta come una volta. Non per una questione di marketing ma perché realmente abbiamo cercato di conservare il prodotto intatto nel tempo per un gran valore affettivo che sentiamo in modo viscerale. Tra i provoloni ci siamo cresciuti, abbiamo il nostro nome su ogni fetta, è come se ci fosse il cordone ombelicale con i prodotti».

E di suo papà che ricordo ha?

«Torniamo in quel mondo che non esiste più. Se il maestro mi dava una sberla, a casa me ne prendevo un'altra. Non come ora. A dire il vero mio padre lo vedevo poco, viaggiava molto. Ma è stato un gran punto di riferimento per il suo esempio e l'impegno aziendale. So che se non c'era era per qualcosa di importante. Ricordo che non partiva mai senza una borsa piena di gettoni per chiamare casa o senza la sua bottiglietta d'olio di Bitonto da usare quando mangiava fuori. Era molto umano ma non un padre amico. Piuttosto un padre maestro. Non ci spiegava le cose ma ci dava un forte esempio. Ci ha insegnato a cercare di non chiedere mai niente a nessuno e cavarcela da soli».

Suo padre fu anche molto coraggioso. Nel 1992, in piena crisi economica, rifiutò l'allettante offerta di una multinazionale straniera e acquisì tutte le azioni dell'azienda.

«Fu una scelta vincente. Da quel momento iniziò il periodo delle acquisizioni, prima fra tutte la Ceccardi. Per fare la fusione in fretta tra Ceccardi e Auricchio concedemmo il 10% dell'azienda con un patto di riacquisto. Alla scadenza dell'opzione, il primo agosto 2000, papà tornò di corsa dall'Elba, interrompendo le vacanze, per firmare e ricomprare quelle quote. Disse che quello fu il giorno più bello della sua vita, perché si era finalmente ripreso il suo 10%: le azioni Auriscchio dovevano rimanere in famiglia. Io essendo uomo più di finanza, avrei anche aspettato, almeno settembre». Ora tocca al gruppo dei 24enni, tra cui suo figlio Guglielmo.

«Sì, sono tre cugini, hanno tutti la stessa età. E poi ce n'è un altro, che ha 19 anni. Non abbiamo imposto a nessuno quello che dovevano fare. Tuttavia stanno studiando economia e sembrano tutti orientati all'azienda. Io non voglio pressare mio figlio ma spero trovi la sua strada. Mi sembra che la passione ce l'abbia. Ora sta facendo uno stage alla Kpmg a Bologna. Abbiamo sottoscritto un patto di famiglia, supportati da Ambrosetti, che regola i futuri ingressi in azienda per far sì che i nostri figli arrivino più preparati di quello che eravamo noi».

Anche le sfide saranno diverse.

«Tutto diventa più difficile. Un tempo bastava un'idea buona, ora no. Il futuro credo sia entusiasmante ma devi capire quali sono le chiavi nuove da usare. Determinante sarà sempre la qualità».

Le imprese italiane come sono messe?

«Il sistema Italia ha pagato uno scotto grosso durante la crisi, soprattutto le aziende meno patrimonializzate e meno rivolte all'export. Noi fratelli abbiamo scelto di investire, certo, con un po' di patema iniziale ma convinti fosse necessario per irrobustirsi. Abbiamo puntato sull'export e negli ultimi cinque anni siamo passati da 22% di export a 35%. In genere non sono un ottimista, sono convinto però che alle condizioni pre 2008 non si torni. Oggi la difficoltà non è la crisi ma è sapersi giocare bene un'idea buona. Se pensi di giocare il futuro solo con un grande passato, hai sbagliato».

Lei ha numerosi incarichi in vari cda (da Touring Club a Autostrade Centropadane), è in Unioncamere, Camera di Commercio, Fiere di Parma. Alla politica cosa chiede?

«Non sussidi fini a se stessi ma attenzione all'impresa, che è un patrimonio per la comunità e non un male da sopportare. È viva, l'imprenditore deve avere una responsabilità sociale. I politici devono capire che il benessere passa anche attraverso le imprese. Senza imprese avremmo poca occupazione, poco sviluppo. Politica ed enti pubblico-economici devono aumentare la loro sensibilità. Un esempio positivo è l'Ice, l'agenzia per la promozione delle imprese all'estero, che sta diventando uno strumento a servizio delle aziende con meno uffici di rappresentanza, meno parole e più iniziative di reale promozione. E pensare che fino a qualche anno fa era un carrozzone che tutti volevano chiudere. Gli imprenditori sanno fare il loro mestiere e lo dice l'appeal del made in Italy. Però le istituzioni devono permettere alle imprese di lavorare bene. Se si vuole che gli imprenditori, dopo anni di crisi, si indebitino per investire, anche la leva fiscale deve essere usata per chi investe e crea sviluppo. L'impresa non ha bisogno di elemosina o sussidi ma di sentire le istituzioni vicine, e anche della pacca sulla spalla».

Un paio di anni fa si parlò molto di lei quando spese mille euro per la cena con Matteo Renzi.

«Lo so, quella notizia fece grande subbuglio. Alcune testate nazionali mi chiesero i motivi, io subordinai la risposta a qualche battuta in difesa delle Camere di Commercio (allora presiedevo quella di Cremona) che facevano bene il loro mestiere e che Renzi voleva chiudere. Alla cena non riuscii nemmeno a parlargliene ma finii sui giornali con la mia posizione. A proposito: i mille euro li pagai io e non l'azienda».

Perché sono cruciali le Camere di commercio?

«Quando funzionano sono un punto di riferimento importantissimo per le imprese, soprattutto quelle più piccole. Faccio un esempio: durante la crisi, le Camere di commercio lombarde hanno dato alle imprese 900 milioni attenuando gli impatti negativi e permettendo loro di riagganciarsi prima alla ripresa».

Non ha mai pensato alla candidatura?

«No. Negli anni, in varie vesti, sia per Confindustria sia Unioncamere o Assocamere Estero, ho avuto modo di incontrare tanti esponenti politici».

Ad esempio, chi?

«Incontrai Fausto Bertinotti in piena polemica sulle 35 ore di lavoro. Discutemmo pubblicamente in maniera franca e costruttiva, ma c'è una foto tra i ricordi in cui sembriamo bisticciare. Di una cena con Romano Prodi ricordo il suo lato aziendalista e da economista.

Ma soprattutto mi piace ricordare il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che, in una visita ufficiale a Cremona, mentre gli donavo un violino a nome dell'economia cremonese, mi guardò e mi chiese: Scusi, qual è il suo nome?. Risposi: Sono Auricchio, quello del provolone. Ah, ma doveva dirlo subito, io mangio il suo formaggio da sessant'anni».

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