Sono tutti un po sorpresi dalle parole che Berlusconi sta ripetendo in questi giorni. Chiede il voto agli italiani, comè ovvio, ma si guarda bene dal promettere lEldorado. «È il tempo dei sacrifici», ha detto laltra sera da Vespa e ha ripetuto ieri al Tg5. È entrato anche in alcuni dettagli: «Per otto pubblici dipendenti che se ne vanno, ne deve essere assunto uno solo». Sono tutti un po stupiti e dicono: da uno come Berlusconi ci si aspetterebbero promesse mirabolanti, lottimismo più sfrenato. E invece.
A una prima analisi superficiale si direbbe che è cambiato lui, Berlusconi. Luomo che annunciava meno tasse per tutti ora ribadisce che la pressione fiscale, con lui al governo, diminuirà: ma aggiunge che questo non ci eviterà di tirare la cinghia. «È cambiato lui», dicono: vuole interpretare il ruolo del salvatore della Patria che torna alla guida nel momento dellemergenza. Più che il Berlusconi del 94 e del 2001, si propone come Quintino Sella che da ministro delle Finanze annunciò un programma di «economia fino allosso»; o come Winston Churchill che prendendo le redini del Paese promise ai connazionali «sangue, sudore e lacrime».
Ma se Berlusconi parla come un Sella o un Churchill, è perché è cambiata lItalia, non perché sia cambiato lui. Non abbiamo, grazie al cielo, i problemi che avevamo nellimmediato periodo post-unitario, né quelli dellInghilterra del 1940. Ma che siamo un Paese che teme il declino, un Paese depresso, lo si vede da tutta questa campagna elettorale, non solo da ciò che dice Berlusconi.
La campagna elettorale è per definizione il momento delle facili promesse, dellottimismo a buon mercato, degli annunci di svolte e ripartenze. Eppure mai come questa volta nessuno si prende la responsabilità di spendere parole alle quali non seguiranno i fatti. È vero che Berlusconi ha sempre cercato di proporre al Paese quel successo che ha conseguito da imprenditore; e che ora, invece, annuncia «sacrifici». Ma anche la sinistra parla un linguaggio diverso. Due anni fa Prodi si spinse addirittura a promettere «la felicità» agli italiani: poi, per i due anni in cui ha governato, ha dovuto sostituire la sua faccia bonaria e sorridente con quella che si assume per una mesta cerimonia. E chi ne ha preso il testimone, oggi, si guarda bene dal promettere miracoli. Il «we can» di Veltroni è ben diverso dal «we can» di Obama. Per il candidato democratico americano è lAmerica che può vincere; per il leader del Pd, al massimo è il suo partito che punta alla vittoria, e che in fondo si accontenterebbe di un pareggio.
E nulla di più. Perché siamo diventati, appunto, un Paese depresso: e di fronte a un depresso, nessuno si sente di far finta che vada tutto bene.
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