A Nord, viaggio ai limiti della terra

A Nord, viaggio ai limiti della terra

Un’alba grigia e impenetrabile. Una foresta. Cacciatori camminano fuori dai sentieri. Dito pronto sul grilletto, negli occhi una luce di tesa concentrazione. Le mute dei cani, la prepotente corsa del fiume, il cielo che non accenna a dischiudersi: perché «sentiamo» di essere al Nord?
Ognuno porta dentro di sé una sua idea del Nord che si accende a contatto con le peculiarità paesaggistiche, climatiche, culturali tipiche di quei Paesi, ma dall’Olanda alla Norvegia, dal Canada all’Alaska, passando per Zembla, Avalon e il regno degli Iperborei, il viaggio verso Settentrione potrebbe iniziare sotto la provocatoria epigrafe di Pierre MacOrlan: «Un uomo sotto la neve conserva ancora una dignità umana, mentre sotto il sole è già putrefazione».
Scriveva già Montesquieu che il clima ha un’influenza diretta sull’anima. A Sud campagna e libera natura, a Nord casa e raccoglimento; a Sud facilità, incostanza, istinto, passionalità, a Nord meditazione, tensione morale, interesse religioso e anche risparmio, per via del carattere precario della produzione. È dunque possibile fare una descrizione dei sogni che esplodono e delle atmosfere che colorano l’anima quando lo scrigno nordico si dischiude. Un anglista dell’Università di Aberdeen, Peter Davidson, se ne è preso il non facile compito, e la traduzione italiana del suo lavoro esce ora per Donzelli: L’idea di Nord (pagg. 268, euro 13,90).
Davidson parte dagli antichi poemi epici come il finlandese Kalevala, per passare dall’irlandese Viaggio di San Brandano del VII secolo, dove i monaci viaggiano verso Nord incontrando prima iceberg, poi vulcani e alla fine la strada per l’inferno e arrivare al Libro dei monti e dei mari della tradizione cinese, dove il Nord è «la regione dello Yin, del freddo, dell’oscurità, a cui sono assimilati gli spettri». Sempre in una poesia cinese del II secolo prima dell’era cristiana, si legge: «Oh anima, non andare al nord, dove gli alberi e l’erba non crescono, e il cielo è bianco di neve, e il freddo taglia e uccide». Davidson continua poi, attraverso una messe di citazioni, fino alla letteratura minore inglese dell’Ottocento e del Novecento. Numerosi poeti, soprattutto scozzesi, hanno versificato su quelle brulle regioni che Londra considerava povere: da Geoffrey Hill a Philip Larkin, da Simon Armitage a Douglas Dunn, e tutti sono scoperte per il lettore italiano.
L’idea del Nord è un libro simile all’algida bellezza di alcune donne, da cui si può prendere piacere o triste e furiosa consolazione - ma non amore. L’autore lo sa: «Il Nord obbliga le illusioni a tornare indietro o a morire nelle sue acque gelide. Il freddo è sempre più forte di te». Come certe donne nei film noir, il Nord ha la capacità di attrarre e poi distruggere in modo violento. Come certe donne, obbliga all’eroismo patetico. È come se il Nord rivestisse ogni oggetto di un’aura sognante, evanescente, in virtù della quale la realtà si sposta di un passo, e noi, sfiorando un candelabro, una bussola, un bicchiere, precipitiamo nel passato, nella memoria, nelle fantasticherie. Nelle menzogne come nei momenti di verità.
Fin dai suoi albori il cinema ha capito questa possibilità del Nord, della luce, delle nebbie, dei mari ghiacciati, di creare una tensione diversa da quella umida e decadente dei Paesi caldi. Chi non ricorda - per citare uno tra i film più recenti ambientato tra i ghiacci dell’Alaska - la persecuzione della luce subita da Al Pacino in Insomnia? Il sole di notte non permette al detective protagonista di chiudere occhio un solo istante e diventa specchio di tutti i suoi intrighi, finendo per accecarlo: nemmeno la compassionevole collaborazione di una collega nell’occultare la verità riesce a salvargli l’anima. Egli stesso, morendo, si avverte dannato.
Insomnia non è che l’epigono di una serie di opere cinematografiche che fanno del Nord un luogo drammatico per chiunque abbia qualcosa da nascondere a se stesso. Si pensi ai film di Ingmar Bergman, Lars Von Trier o Knut Jensen. Quest’ultimo soprattutto: basterebbe menzionare Brent av Frost (Bruciato dal gelo), film pieno di immagini colte dall’acqua gelida, di fitta erba estiva dove giocano bambini o gli adulti stanno distesi nudi, di modulazioni della luce sui fianchi delle alture che declinano verso il fiordo, di luccichii del mare al profilo di un peschereccio all’àncora. Tutto filmato con una lentezza che o respinge o cattura per sempre.
Peter Davidson è uno di questi “ergastolani” del Nord: lo si percepisce dagli aggettivi che usa. Non passano cinque pagine senza che egli non lasci cadere una descrizione che apparterrebbe più a un romanzo che a un saggio: «Il vento passa attraverso le finestre aperte, senza tende, portando gli odori - di pino, di acqua stagnante di lago, di ginestra spinosa, di erica, di spiaggia - per le verande dipinte di bianco. Minuscole falene piumate, animate lanugini di cardo selvatico, fluttuano tra le canne e i mirti alle pendici dei colli... Persino a mezzanotte il cielo incerto mostra squarci e sprazzi di luce diurna...».


L’epilogo del libro e del nostro viaggio è un inno alla solitudine, dove all’argomento trattato si mischiano le sensazioni intime dell’autore e tutto si trasfigura poeticamente: Davidson siede alla scrivania e insegue la realtà a sé stante del Nord sul monitor del suo computer. Nella mente, forse, i versi di Geoffrey Hill: «Il sole se n’è andato, che aveva appena oscillato, chiaro, sull’orlo della terra. Noi viviamo come spigolatori delle sue vestigia».

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