Politica

Nostalgia di cultura di Stato

Esce proprio sotto le elezioni (sarà un caso, come per il film di Moretti?) un pamphlet che trasferisce il Caimano dalla cinematografia all’editoria. Il libretto di per sé è neutro, tanto più che viene dall’estero. L’autore è un ex editore, André Schiffrin; il titolo è di quelli che fanno paura, Il controllo della parola; lo pubblica una piccola casa editrice di qualità, Bollati Boringhieri, a un prezzo (12 euro per 90 pagine) capace di dimostrare da solo che la cultura - «quella vera» - costa cara. La tesi è antica quasi quanto l’invenzione di Johann Gutenberg e dice, in soldoni, che le case editrici badano troppo al mercato per fare vera cultura e che troppi libri di qualità non vengono pubblicati perché non abbastanza redditizi. Si propone dunque la nascita di una «fondazione editoriale senza fini di lucro», ovvero una casa editrice a perdere, che pubblichi volumi sceltissimi anche senza speranza di guadagno: i titoli verrebbero naturalmente selezionati da una commissione di fini intellettuali cooptati in vario modo ma di certo non per concorso. Benché Schiffrin si occupi soprattutto dei casi francese e angloamericano, ci pensa l’introduzione italiana - di Stefano Salis - a ricaimaneggiare il tutto sostenendo, in sostanza, che la libertà di mercato editoriale è un pericolo «per la garanzia di un’equa rappresentatività democratica». La tesi, per quanto aberrante, è stata sostenuta con un lancio da bestseller (presentazione contemporanea in quindici grandi librerie nazionali) e rilanciata da un’intera pagina della Stampa, due giorni fa, con un titolo che è già una sentenza, «Torna a casa Struzzo», ovvero: l’Einaudi, passata dall’intellettuale Giulio al caimano Silvio, ha smesso di fare debiti, anzi guadagna, rinunciando però a chi sa quali bei libri che contribuirebbero tanto al bene nazionale e al prestigio della sua immagine quanto al passivo dei suoi bilanci. Considerando che l’Einaudi era in fallimento quando è stata rilevata dal gruppo Mondadori, viene voglia di ricorrere al proverbio per cui è preferibile un asino vivo a un cavallo morto. Se non che, l’attuale Einaudi è tutt’altro che un asino, anzi. E se ha migliorato i bilanci rinunciando alla pubblicazione di qualche libro a perdere, la maggior parte di quei volumi è finita nelle mani di editori più piccoli, più o meno prestigiosi ma di certo più adatti per il loro pubblico di nicchia. Non è vero, in definitiva, che «la strategia di acquisizione progressiva degli editori indipendenti da parte dei colossi mediatici e il prevalere di una logica di profitto sulla imprenditorialità libraria», abbiano «concorso ad alterare nel profondo la qualità del prodotto». Ma se anche fosse vero, ne ha risentito quella cultura «altissima», riservata a pochi, che può sempre fare ricorso alle edizioni in lingua originale o alla diffusione sul web. In compenso, una normale editoria medio-alta in utile rappresenta la maggiore garanzia della diffusione della cultura che più serve il popolo, per richiamarsi a un vecchio slogan di estrema sinistra. La polemica che si vuole far nascere intorno a Il controllo della parola è dunque strumental-elettorale e politica, ma vale la pena di considerare gli orrori cui porterebbe l’accettazione della sua idea di base. Come nella Casa degli scrittori sovietica, si arriverebbe a veder nascere «fondazioni senza fini di lucro» editoriali incaricate di pubblicare poesia, narrativa, saggistica di «sicura qualità» con il denaro pubblico: molto denaro pubblico, naturalmente, visto che si dovrebbe affidare la scelta a collegi o commissioni di intellettuali ben pagati e del tutto indifferenti alla quantità di volumi invenduti resi per il macero. Proprio come è già avvenuto per il cinema, dove lo Stato ha finanziato decine di film di presunto interesse culturale nazionale (per esempio quello di Marina Ripa di Meana) poi giustamente visti da nessuno.

E infine, se proprio bisogna vigilare su una cultura da proteggere, quella più delicata, importante e in pericolo è la cultura dei testi scolastici. Allora perché non tornare al Testo unico di Stato, come ai brutti tempi del fascismo?

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