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"La nostra vita è come un ragù. Ha bisogno di pazienza e cura"

Lo chef, mediatico e rocchettaro, ha aperto il suo primo ristorante ma appena può riunisce la famiglia per il pranzo della domenica

Olycom
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Per farsi un'idea di com'è Alessandro Borghese, basta un colpo d'occhio: All Stars ai piedi e Montblanc nel taschino della giacca da chef. Lui, uno dei cuochi più famosi d'Italia, è così: rocchettaro e gentiluomo, genuino e sofisticato. La creatività la esprime ai fornelli ma l'ha respirata fin da piccolo, figlio dell'attrice Barbara Bouchet e del produttore cinematografico Luigi Borghese. Ha imparato a cucinare dai grandi maestri dei ristoranti stellati di Parigi e Londra, ma anche dalle casalinghe italiane, imbattibili nel tirare la pasta. Chef mediatico per definizione, è super impegnato: il 16 gennaio partirà con la nuova stagione di 4 ristoranti su Sky, il 15 gennaio condurrà la sfida tra regioni di Cuochi d'Italia su Tv8. E ha da poco aperto il suo primo ristorante (Il lusso della semplicità, a Milano). Ma non dimentica quella che potremmo ribattezzare la «filosofia del ragù»: perché una cosa riesca bene ci vogliono tempo, pazienza e cura.

Chef Borghese, questa può anche essere la ricetta per guadagnare la prima stella?

«Mi ha già chiamato la Michelin. Mi ha chiesto se volevo quattro gomme invernali. Ho detto che, grazie, le ho appena montate, l'anno prossimo vedremo. Scherzi a parte, le stelle vanno e vengono, io ho scelto un'altra strada. Per me esiste la cucina buona e quella non buona, non quella stellata o non stellata. Conosco ristoranti pluristellati dove si mangia male, stellati dove si mangia bene e trattorie dove si mangia mille volte meglio che in uno stellato».

Bello il ristorante nuovo, ricorda l'ambientazione da crociera. Un ritorno alle origini?

«Sì, è un po' anni Quaranta, stile déco, molto simile a quello che può essere un ponte di una grande nave da crociera, dove io da ragazzo ho lavorato tanti anni e ho fatto una gran gavetta. Ad affrontare il mondo lavorativo a bordo di una nave mi venivano in mente le grandi scoperte: stare su questa casa galleggiante in giro per il mondo, fare esperienza e viaggiare allo stesso tempo è stato uno dei periodi più belli della mia vita. Quindi, pensando al mio ristorante mi divertiva l'idea di non stare al piano terra ma avere questa vista ampia e molto simile a quella di un ponte anche se, certo, non ci affacciamo sull'oceano».

Cosa ha imparato a bordo?

«Sono andato lì per un'esperienza di un mese, poi il mese è diventato un anno, e l'anno tre anni. Pensi che è successo anche che siamo affondati con la nave. È colata a picco, era l'Achille Lauro, eravamo al largo delle coste somale il 30 novembre 1994. Abbiamo trascorso cinque giorni sulle scialuppe gonfiabili di salvataggio. Siamo sopravvissuti con le cannucce e con le derrate alimentari di bordo. Alla fine ci è passata a prendere una petroliera e ci ha salvati».

Per il resto direi che la sua carriera è stata tutto fuorché un naufragio.

«Dopo le navi, sono partito, sono andato negli Stato Uniti, a Parigi, ho girato il mondo e imparato il mestiere».

E nel 2004 è stato il primo chef a portare in tv le trasmissioni di cucina di nuova generazione. Anche sua mamma fu la prima a inventare un genere in tv: le lezioni di aerobica.

«Siamo una famiglia di apripista. Io all'epoca ero pischellissimo. Ho passato un periodo scolastico quando ero ragazzino dove con una mamma famosa bisogna battagliare con i compagni della scuola. Fortunatamente avevo dei genitori intelligenti che mi spiegavano le cose e parlavano tanto con me, quindi mi sapevo difendere benissimo. Lei iniziò ad aprire le palestre, poi arrivò la tv. Per me era normale, era il lavoro di mamma. Spesso mi portava in giro per le sue palestre. Erano tutte palestre femminili e io ci andavo a nozze».

Nasce da lì il piglio sciolto davanti alle telecamere?

«Eh sì, quello l'ho ereditato da mamma. Ho mescolato la spigliatezza all'umiltà che il mondo della cucina mi ha insegnato. Da mio padre invece, che era il napoletano di famiglia, ho preso quel savoir faire che a Napoli si chiama la cazzimma».

E invece la passione per la cucina da chi l'ha ereditata?

«Mamma mangiava insalata. Papà era un cuoco della domenica: cucinava il pacchero scamazzato con la pummarolilla, il ragù che "deve pensare" e farfugliare. E poi il sartù di riso, la genovese e tutti i piatti tipici della tradizione napoletana: pasta e patate, pasta e fagioli, pasta e lenticchie. Sono tutti i piatti che mi hanno trasmesso il piacere di stare a casa e ascoltare la musica della cucina: le pentole, l'olio che soffrigge. In seguito le ricette imparate da papà le ho portate molto più avanti ma la sperimentazione e la passione sono iniziate così. Il linguaggio della cucina l'ho imparato da lui. Poi ho iniziato a cucinare per quei due o tre amici quando venivano a casa. Per convivium più che altro».

Che percorso di cucina ha fatto? Sapori rubati qua e là nel mondo o tradizione?

«Mi sono innamorato della cucina italiana che cambia di 100 metri in 100 metri, di condominio in condominio. Tutte le persone ti insegnano qualcosa che poi, di volta in volta, magari ti viene in mente in quel momento preciso. E pensi allora a quella signora che usava una spazzola per chiudere i tortelli. Ho rubato ovunque con gli occhi e ho fatto mio ciò che ho imparato. È talmente bello il mondo della cucina che non si finisce mai di imparare e c'è sempre qualcuno che ha qualcosa da dirti. Purtroppo queste persone stanno scomparendo. Le nuove generazioni non hanno voglia di cucinare, di perdere tanto tempo. E pensare che prima non si usavano la bilancia o il timer, si andava ad occhio».

Cos'è per lei la cucina?

«È una bella donna: può piacere a una persona e può non piacere a un'altra. Ci sono i piatti oggettivamente buoni, ma ci si innamora delle sfumature. Da qualcuno ho imparato il rigore e la tecnica, da tante signore il sentimento, la ritualità e la manualità di determinate cose. E senza quella tradizione non si può innovare. Cerco di insegnarlo a tutti i ragazzetti che vengono a fare gli stage in cucina: tutti fenomeni che hanno visto 60 programmi, si sono comprati centinaia di libri e hanno speso 20mila euro di corsi di ogni genere. Sanno fare la sferificazione con dentro il vapore e via dicendo. Poi se gli chiedi di fare uno spaghetto al pomodoro non riescono».

Cosa consiglia ai giovani che iniziano?

«Tanta umiltà. Il problema è che il mondo della televisione, e mi ci metto dentro, ha fatto del bene e del male. Nelle scuole alberghiere vogliono tutti fare i cuochi e non esiste più il cameriere. Oltre alla scuola, bisogna entrare in cucina e imparare. Piano piano, senza scorciatoie. Noto questo: mentre per noi ci sono voluti vent'anni per arrivare dove siamo, ora si fa tutto di corsa. Ora tutti pensano di fare soldi velocemente, fama e tv senza grossi sforzi. Non funziona così. Non si può fare il ragù in mezz'ora».

Ma gli chef in tv fanno immaginare percorsi più semplici di quelli che descrive.

«Noi però siamo arrivati sui set televisivi dopo percorsi molto lunghi. Ora in tv ci sono miriadi di programmi di perfetti sconosciuti. C'è spazio per tutti ma come dice Vasco Rossi: io sono ancora qua, eh già».

A proposito di canzoni. Il binomio musica e cucina per lei è un piatto ricorrente. Che ci fa una consolle nel suo locale?

«Ho il dj fisso. Il sottofondo che proponiamo è rock: Red Hot Chilli Peppers, Led Zeppelin, Metallica, Iron Maiden, Georgia Satellites, Supertramp, ogni tipo di rock possibile e immaginabile».

E il suo menù è rock come la playlist che propone?

«No, sono esterofilo solo sulla musica. A tavola tutti noi chef abbiamo il nostro piatto forte: Carlo Cracco ha l'uovo marinato, Davide Oldani ha la sua cipolla caramellata. Io ho la mia cacio e pepe che va come un treno. Abbiamo classici napoletani e romani creativi che però si abbinano a un mondo di musica non italiano».

Qui c'è un po' di eredità materna?

«Con mamma ascoltavo tantissimi vinili. A lei piacevano Cat Stevens, i vecchi di Rod Stewart. E poi ho accanto mia moglie Wilma che è una rocchettara di quelle pesantissime. Il potere evocativo della musica è simile a quello della cucina, ti suscita emozioni e ricordi. Mangi un piatto e ti accendi: "Questo lo faceva mia nonna". Con un brano musicale è la stessa cosa: "Questo mi ricorda il mio primo fidanzato"».

Com'è lavorare con la moglie?

«Impegnativissimo. Lavoriamo da dieci anni assieme. In fondo dietro a un grande uomo c'è sempre una grande donna. Tutto questo senza di lei non sarebbe stato possibile. A casa parliamo di lavoro ma in un modo diverso, con un'analisi di quello che è successo differente rispetto a quando siamo sul posto di lavoro. Spesso non siamo d'accordo ma ognuno lascia spazio all'altro sulle scelte, sulle decisioni».

Insieme avete aperto la società AB Normal, come la targa del cervello di Frankenstein junior?

«Esattamente. Il nostro motto lo prendiamo proprio da quel film: "Si può fare!". Bisogna solo avere la testa proiettata su un obiettivo, determinazione. I problemi si possono affrontare. Solo alla morte non c'è rimedio».

Restiamo in ambito film. Mamma attrice, papà produttore cinematografico, questo è un mondo a lei familiare.

«Sì, ma mia madre mi ha sempre detto di non fare mai quel mestiere. Perché, cosa che anche io vedevo, è eterna l'attesa che un attore può avere. Fai un film e non sai quando fai il prossimo, devi aspettare una telefonata. Questo è anche stato il motivo per cui io dentro di me mi sono sempre detto: voglio fare un lavoro dove decido io quando creare lavoro e ricchezza, dove posso usare le mie mani. Poteva essere il calzolaio, il fabbro ma senza dover stare lì ad aspettare che qualcuno ti chiami».

A quale chef si sente simile?

«A Marco Pierre White, il vero primo chef rock and roll, prima che esistesse il mondo della tv, prima delle stelle televisive, dello chef ribelle tutto tatuato. Lui di natura lo era ribelle, la più giovane stella Michelin in Inghilterra, quando in Inghilterra si mangiava solo fish and chips. Il primo rivoluzionario».

Anche lei ha un paio di tatuaggi. Che significano?

«Sul braccio destro ho un cuoco-diavolo con i fornelli. Mai finito, mai avuto il tempo. E sul sinistro un tatuaggio fatto quando mi sono fidanzato con mia moglie: Love kills slowly, l'amore uccide lentamente».

Come l'ha conquistata sua moglie? A tavola?

«Ho puntato sul vino. Pinot nero come se piovesse. Lei è un'amante dei sapori forti: bottarga, agnello, interiora, sapori decisi e vino rosso».

E le sue figlie cosa mangiano?

«Arizona è da succo all'arancia e mandorle caramellate e Alexandra, due anni, sembra Bam Bam dei Flintstones, è un amore. Le piace il piccione in casseruola e l'altro giorno si è mangiata l'agnello imbuttunato che ha fatto la nonna. Mi dà grandi soddisfazioni».

Bambini e cucina ricercata. È bene educarli al gusto e al piacere della tavola?

«Se vai al Sud c'è la filosofia dello "stai sciupato". Al Nord c'è più rigore. Non ci sono limiti nel far assaggiare il cibo. A due anni mia madre mi dava il fegato alla piastra perché c'era il ferro. Prima c'era tanta cucina cucinata, c'era il tempo. Ora è tutto diverso, c'è il take away, la cucina precotta, confezionata. Si fa l'errore di pensare che preparare un pasto e stare a tavola sia una perdita di tempo. Prima il momento della tavola era il momento della famiglia, del confronto sulla giornata, del relax. Io obbligo i miei a fare il pranzo della domenica. Se io non lavoro, la domenica si sta a casa e si mangia tutti assieme. Si parla. Facciamo troppe cose e non ce le godiamo nemmeno quando sono belle. Non abbiamo il tempo per assaporarle, ne accadono subito di altre».

Insomma, ci vuole un po' di filosofia del ragù: cotture lente e tempo per assaporare le bontà della vita.

«Mi piace, Borghese e la filosofia del ragù. È proprio così. Invece adesso tutti inseguono cucina veg, bio, gluten free, crudista. Ognuno ha il diritto di fare ciò che vuole. Oggi se preparo dei menu devo pensare che, se inserisco una pasta devo pensare anche alla versione per celiaci, se metto un piatto serve la versione vegana. Mi va bene, ma non mi devi imporre nulla né mi devi guardare come una brutta persona se mangio normale.

Io ho il mio menù, le persone mi possono dire le loro esigenze ma senza arroganza né snobismo».

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