Le nostre Province? Una tassa salata che paghiamo dall’800

Caro Granzotto, nella mia città si è votato solo per la Provincia. Sono andata alle urne e ci sono tornata per il ballottaggio. Ma non era stato detto che le Province erano un carrozzone inutile e costoso? Non avevo già votato per chi ci aveva promesso la loro rottamazione? I politici, durante la campagna elettorale, a quanto mi risulta non hanno neppure sollevato il problema. Mi vuol dare lei o il mio giornale una risposta? Credo di meritarla avendo già rinunciato al «mare» per ben due volte.
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Abolire le Province sembrerebbe una cosa facile, gentile lettrice, anche se non indolore. Non c’è schieramento politico che vi si opponga. Nemmeno i bastian contrari più coriacei e ottusi come Antonio Di Piero (ottusa non la mente, ché quella resta sempre un gioiellino, ottusa l’azione politica). Tutti, insomma, riconoscono l’inutilità di quei 110 enti locali che ci portiamo dietro dall’Ottocento e che nacquero così come sono: superflui. Istituiti nel corso del processo unitario, per darsi un tono i padri della Patria li fecero passare per strumenti indispensabili al decentramento burocratico (che in cuor loro ritenevano una iattura). La verità è che furono un contentino, escogitato per lusingare il senso di appartenenza se non proprio il campanilismo delle terre sì «redente», ma che manifestavano una viva insofferenza alla «piemontizzazione». Tant’è che la legge istitutiva, nota come Legge Rattazzi, le svuotò di ogni autonomia e del potere di amministrazione attiva a beneficio delle Prefetture, chiave di volta dello Stato centralista come lo voleva il Piemonte mutuandolo dal sistema francese. Inutili, dunque, ma costosissime. Oggi le Province succhiano all’incirca undici miliardi, ovviamente l’anno. Dispendiose e anche pletoriche contando un personale che sfiora le 65mila unità alle quali bisogna aggiungere gli eletti, i 3mila Consiglieri, il centinaio di Presidenti e i quasi mille assessori. L’inutilità e il costo non pesò nel giudizio dei padri costituenti i quali, prendendo il testimone da quelli della Patria, non si fecero scrupoli ascrivendo, all’articolo 114 della Costituzione «più bella del mondo», le Province. Né impedì che gli interessati ne ottenessero - anche quando le forze politiche di destra e di manca ne invocavano l’abolizione - delle nuove, le ultime quelle di Monza-Brianza, Fermo, Barletta-Andria-Trani, Carbonia-Iglesias, Medio Campidano, Olbia-Tempio, se le ricordo tutte. Il perché di questa smania a «provincializzarsi» è presto detta: quegli enti saranno inutili, saranno onerosi, ma restano pur sempre un gagliardo postificio e una macchina in grado di drenare soldi. La molla è dunque: piatto ricco mi ci ficco. Bisogna però ammettere che non è il clientelismo - io do una provincia a te, tu dài il consenso a me - o almeno non è solo quello a fiaccare l’universale volontà di sopprimere le Province. Sono i loro 65mila dipendenti. Cosa farne? Se fossero ricollocati in altri enti, a parte le proteste degli interessati andrebbe in fumo il risparmio. Metterli «in mobilità» neanche a pensarci. Pensionarli tutti, per quanti sono, significherebbe ricalcare la scandalosa Legge Mosca con la quale nel ’74 i partiti e le organizzazioni politiche, in massima parte di sinistra, pensionarono 40mila dipendenti e funzionari senza che ne avessero i requisiti. Resterebbe inoltre un problemino: garantire le quattro paghe per il lesso al personale politico, i presidenti (la cui retribuzione varia dai 4 ai 7mila euri), il vicepresidenti (dai 3mila ai 4mila e 500 euri) e degli assessori (dai 2mila e 800 ai 4mila e 500 euri).

Chi se li accollerebbe? E a spese di chi? Insomma, la strada tra il dire e il fare si presenta lunga e faticosa e, da come la vedo io, sarà già un miracolo il blocco delle nuove province (ce ne sono una dozzina in lista d’attesa). Lei, gentile lettrice, crede nei miracoli?
Paolo Granzotto

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