E ntrarono con lauto in quello che nella penombra sembrava un enorme cortile. Una casa di pietra del Settecento fronteggiava una lunga fila di scuderie: un lato del grande quadrato era costituito dalle case degli operai dava limpressione che allinterno ci fosse un intero villaggio. In un angolo del cortile, quasi fosse un semplice fienile che faceva parte della fattoria, cera perfino una chiesa. I carri agricoli stavano entrando, carrozzoni lunghi e bassi, con due cavalli ciascuno, sollevavano la polvere come fosse pula. Il capitano Starhov disse: «La casa verrà abbattuta, ovviamente, alla fine. La fattoria è stata collettivizzata».
«Chi ci abitava?»
«Il proprietario. Gli ho permesso di restare per il momento. È meglio così finché rimango qui.»
Un soldato aprì lo sportello dellauto e il capitano Starhov rimase un istante a guardare le ombre basse degli edifici: un cavallo nitrì nelle scuderie, i carri entravano lenti. Disse: «Ho letto di posti così nei libri, ma prima non avevo mai...».
«Prevede di andarsene?»
«Non ci fermiamo mai, noi» rispose Starhov in tono mesto. «È bellissimo qui.» Starhov diede bruscamente le spalle al cortile e fece strada dentro casa. Latrio era quasi spoglio: una vecchia stufa, una sedia di legno, e la scala curva settecentesca aveva perso parte della balaustra. La magnificenza era ormai morta e sepolta.
Starhov disse: «Il soldato le mostrerà la sua stanza. Vorrà riposarsi. Parleremo di nuovo a cena». Mentre Brown si girava, aggiunse, con una nota arcigna: «Mi lascia il suo libro, nel frattempo?».
Brown rispose: «Hanno già controllato che non ci fossero segni alla centrale di polizia». Starhov disse con fare rigido: «Se vuole farmi la cortesia...».
La stanza era spoglia quasi come latrio e quasi altrettanto larga; un lettino di ferro, una stufa che non funzionava, un catino per lavarsi le mani, ununica sedia e ununica luce al centro del soffitto. Era meglio di una cella ed era più facile evadere. Non appena solo, si tolse la pallina di pane dallorecchio. Riesumò il pezzetto di carta, ma la scrittura era così minuta che dovette salire sulla sedia e avvicinarlo alla luce per leggere le piccole file di numeri che solo lui era in grado di decifrare non appena fosse riuscito a fare i calcoli senza pericolo. Li imparò a memoria e poi, siccome gli avevano sottratto i fiammiferi, infilò di nuovo il foglietto nella pallina di pane e ingoiò il tutto. Cera stata una sola probabilità su mille che trovasse il coltello, che il messaggio venisse mai letto; la vita certe volte insegna davvero a sperare nellimpossibile. Brown poteva rendersi utile perfino in quel frangente. Guardò dalla finestra; era quasi sopraggiunto il buio. Aveva memorizzato come meglio poteva la strada che avevano percorso da Ilsenhof. Quanto alla parola data, poteva essere importante per un soldato passibile di punizione, ma lui non era un soldato. Una volta decifrato il messaggio avrebbe deciso come comportarsi. Dalle scuderie una donna attraversò il grande quadrato in ombra. Loscurità incipiente gli impedì di credere ai suoi occhi.
Uscì dalla stanza e, aspettando sul ballatoio dellatrio, vide il pomello girare. Laveva incontrata una volta, due, e ora lei entrò per la terza volta nella sua vita e lo guardò, stavolta non come unestranea ma come il viso che gli era rimasto nella mente per tutte le ore dellinterrogatorio, e Brown le rivolse un sorriso stupido perché in quel momento era felice. Che nello sguardo di lei non ci fosse traccia di benvenuto ma solo risentimento lo lasciava indifferente. Sentirsi, per quanto momentaneamente, parte di un disegno somiglia alla pace. Non si era mai avvicinato tanto alla fede. Era sollevato da ogni responsabilità. Era nelle mani di un dio.
Lei disse: «Chi sei?», senza scostarsi dalla porta.
«Richard Brown» disse lui.
«Non ti conosco.»
«Ti ho visto due volte, sei entrata nel negozio a comprare il pane.»
«Nicolai è?...»
«Il capitano Starhov mi ha invitato a fermarmi. Sai, alla centrale di polizia non cera posto.»
«Saresti stato meglio lì.»
«Ne dubito» disse lui, e sollevò le dita infiammate e gonfie.
Lei trasalì e distolse subito lo sguardo. «Vado a cercare un po di unguento se mi fai passare.»
«Farti passare? Ma se sono quassù e tu sei laggiù. Non blocco mica le scale.»
Lei disse sconcertata: «Ma certo, non so a cosa mi riferivo. Ho detto una stupidaggine». Raggiunse rapidamente le scale e le salì a testa bassa. Disse: «Ti mando in camera qualcuno con le bende» e si allontanò.
Lui disse: «Non voglio lasciarti passare» e lei si fermò a guardarlo. «In che senso?»
Lui disse lentamente, come se recitasse unequazione matematica: «Vorrei trovarmi su qualunque passaggio, qualunque sentiero, qualunque soglia dovrai varcare, per bloccarti la strada».
Lei replicò immediatamente con unonestà che lo confuse, quasi pronunciasse la seconda metà dellequazione: «Non hai fatto altro, per tutto il giorno». Proseguì con quella che sembrava rabbia. «Non sarai contento finché non me lo sentirai dire, vero? E va bene, lho detto. Ti ho rivolto due parole oggi. Stamattina. Ecco, lho detto. Puoi cantare vittoria. Ora per lamor di Dio lasciami in pace.»
«Ma perché? Non capisco.»
«Capita anche alle donne, sai, non solo agli uomini. Stavi lì impalato come uno stupido mentre noi eravamo in ginocchio.»
«Tre parole, non due: inginocchiati hai detto, inginocchiati, presto.»
«Non ti ho visto andartene. Stavo pregando, pregavo di non rivederti mai più perché saresti stato salvo.»
«Sono contento di non credere nella preghiera...»
«Nicolai è qui?»
«Parli di Starhov? Sì.»
«Probabilmente sente ogni parola che diciamo.»
«Ha importanza?»
«Sì, lo amo.»
Fu come un getto dacqua fredda in faccia. «E io?» chiese, stancamente. «Scusa. Sono sfinito. Confuso. Non capisco. Mi sembrava che avessi detto...»
«È unossessione. Ci possiamo liberare delle ossessioni, no? In un modo o nellaltro. Se vuoi vengo in camera tua quando Nicolai dorme.
© 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Per gentile concessione dellagenzia Bernabò