O scrittore, ti accuso di plagio. Per distruggerti

O scrittore, ti accuso di plagio. Per distruggerti

E ssere plagiati, per gli scrittori, significa essere copiati e dunque vampirizzati della propria unicità. Ma significa anche essere prima di tutto letti, poi amati e idolatrati al punto che chi copia rinuncia a esprimersi per cieca fiducia nella superiorità artistica del plagiato. Essere plagiati, dunque, è da sempre un oscuro desiderio degli scrittori, gente egoriferita quant’altri mai. La scrittrice (e psicanalista, dettaglio non secondario) Marie Darrieussecq - l’autrice di Troismi (Guanda), lo ricordate?, romanzo kafkiano in cui si narrava d’una giovane che si trasforma piano piano in scrofa - nella sua vita letteraria è stata accusata di plagio già due volte. Sicché l’interessante saggio Rapporto di polizia. Le accuse di plagio e altri metodi di controllo della scrittura (Guanda, pagg. 370, euro 20), appena pubblicato in Italia, ha tutta l’aria di un regolamento di conti con le sue due «vittime»: Marie NDiaye, da cui la Darrieussecq avrebbe «copiato» il romanzo Nascita dei fantasmi, e Camille Laurens, a cui si sarebbe «ispirata» per Tom è morto (tutti Guanda).
Per opporsi a secoli di accuse di plagio «strumentali», qui si conia addirittura un termine nuovo, «plagiunnia»: è la pulsione a creare scandalo intorno alla propria opera che spinge alcuni scrittori a calunniare i colleghi e ad accusarli di imitazione senza che ne esistano gli estremi. E via con la categorizzazione delle plagiomanie come si fa con le nevrosi: ci si legge nei libri degli altri per castrazione e lo sguardo paranoico individua allucinatorie frasi simili, temi sovrapponibili, lapsus e travisamenti. Risultato: la psiche dell’accusato viene distrutta da una calunnia cui, visto che non si è ancora scoperta l’origine dell’originalità, è facilissimo ai lettori, e ai giudici, credere.
Prendiamo Freud. Ha sempre suscitato incommensurabili sentimenti di ammirazione, odio e fascinazione. Quindi secondo la Darrieussecq è perfetto per l’accusa di plagio. E infatti se ne approfittarono in primis gli psicanalisti Gustav Jung e Sabine Spielrein, e poi Fliess, Stekel, Adler, Tausk, Rank, Groddeck, Brunswick. Tra tutti, il caso di Fliess è esemplare: non soltanto accusò l’amico Freud di avergli rubato idee e successo, ma di volerlo assassinare sulle rive del lago di Achen. E che dire di Pierre Janet, che montò lo scandalo dalla cattedra al Collège de France: sostenne che Freud gli avesse trafugato l’invenzione stessa della psicanalisi e lo colpì al punto che questi, ancora trent’anni dopo le accuse e prossimo alla fine, si rifiutò di riceverlo. Anche peggio finì per Paul Celan, uno dei poeti più «originali» della storia della letteratura. La vedova di un altro poeta, Yvan Goll, lanciò contro di lui tre terribili campagne di diffamazione, nel 1953, nel 1960, nel 1962: Celan se ne ammalò fino al suicidio. Nessun premio o lode risanò quelle ferite: «Perché se si arrivava a credere che Celan aveva rubato le parole, a Celan non restava più niente, dell’uomo e del poeta, indissolubili». E i casi proseguono con Mandelstam, Majakovski, Émile Zola, Salman Rushdie, Danilo Kis, Daphne du Maurier, affetta da terrore nevrotico perché dopo l’enorme successo che seguì al film che Hitchcock trasse nel 1940 dal suo Rebecca, subì doppia accusa di plagio, con annessi scandalo e processo, da due diverse scrittrici americane.

Per difendersi avrebbe dovuto dimostrare di averlo «ideato» prima del 1932: «Ma chi poteva testimoniare di questa attività mentale, segreta, non verificabile? E come rispondere a domande quali: “Perché ha aspettato cinque anni per iniziare a scrivere?”».

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