Obama ora accusa il Pakistan «Copriva Bin Laden e i suoi»

Stavolta non sono semplici sospetti. Stavolta non sono velate allusioni. Stavolta il Pakistan, trovato con il Bin Laden nell’armadio, deve rispondere a una precisa e sferzante accusa d’infedeltà. Un’accusa formulata per la prima volta dallo stesso presidente Barack Obama. Un’accusa resa più tagliente dalla minaccia, evocata dal Consigliere per la sicurezza Thomas Donilon, di comprovarla con i dati rinvenuti nei computer dello sceicco del terrore. Il pesante avvertimento della Casa Bianca prende corpo attraverso una lunga intervista concessa da Obama alla rete televisiva Cbs. «Pensiamo che all’interno del Pakistan ci sia una sorta di rete di appoggio a Bin Laden, ma non sappiamo chi o cosa formasse quella rete. Non sappiamo se vi partecipassero personaggi interni o esterni al governo, proprio questo - fa capire senza giri di parole il presidente - è quello su cui dobbiamo indagare e quello, ancor più importante su cui il governo di Islamabad è tenuto ad indagare». È un avvertimento al quale Islamabad replica duramente per bocca del suo primo ministro, che annuncia l’apertura di un’inchiesta: «Accuse assurde - dice Yusuf Raza Gilani - C’è stato un fallimento dell’intelligence. Ma non solo della nostra, ma dei servizi di tutto il mondo».
Eppure Washington, fa intendere la Casa Bianca, non è più disposta a farsi prendere in giro da un alleato che dal 2001 in poi s’è messo in tasca oltre 20 miliardi di dollari di aiuti destinati proprio alla lotta al terrorismo. Anche perché la scoperta della tana di Bin Laden a poche centinaia di metri da un’accademia militare considerata la West Point pakistana è solo la punta dell’iceberg. Prove ancor più compromettenti si nascondono nei voluminosi dossier riempiti dagli analisti di Langley durante gli otto mesi d’indagini sul covo di Abbottabad. Evidenze ancor più esplosive stanno emergendo dai computer e dagli archivi elettronici trovati nell’ultimo rifugio dello sceicco del terrore. A quelle prove ancora segrete allude il presidente Obama quando ricorda che i pakistani «fanno intendere d’esser interessati a capire di quali appoggi godesse Bin Laden». Il sarcasmo con cui il presidente allude al «profondo interesse pakistano» è seguita da una frase dal tono vigorosamente intimidatorio. «Queste sono domande a cui è difficile rispondere in tre o quattro giorni. Avremo bisogno di un po’ di tempo prima d’esser in grado di esporre tutte le prove raccolte sul posto», spiega Obama facendo capire agli alleati fedifraghi che farebbero meglio a non evocare risposte imbarazzanti. Alle prove nascoste fa riferimento anche il consigliere per la Sicurezza Donilon quando - in perfetta sintonia con il proprio capo - chiede a Islamabad di metter a disposizione degli inquirenti americani le persone e gli oggetti rimasti nel covo di Abbottabad. «Abbiamo chiesto - spiega Donilon in una dichiarazione alla Cnn - di avere pieno accesso sia alle tre mogli rimaste sotto la loro custodia, sia ai materiali rimasti nell’edificio». La richiesta - vista la rabbia e l’indignazione manifestata dal Pakistan dopo il raid segreto condotto sul proprio territorio - può sembrare tanto sfacciata quanto inutile, ma probabilmente così non è.
Washington sa, probabilmente, di poter mettere sul tavolo offerte che Islamabad non può rifiutare, sa di poter rispondere con rivelazioni assai imbarazzanti ad un eventuale diniego dell’alleato infedele. Anche perché probabilmente già possiede una lista con nomi e cognomi di alti esponenti dell’establishment militare e governativo legati ad Al Qaida a doppio filo. La guerra delle identificazioni del resto è già iniziata. A scatenarla ci pensano le spie pakistane dell’Isi (Inter Services Intelligence) passando a una televisione privata e a un quotidiano il verbale di una riunione top secret in cui Mark Carlton, attuale capo della sezione della Cia a Islamabad, viene identificato per nome e cognome. L’effetto è ovviamente devastante. Il funzionario si ritrova a correre un rischio altissimo ed è quindi non solo bruciato, ma anche costretto ad abbandonare il paese. Lo scherzetto, il secondo di questo tipo messo a segno dall’Isi in meno di un anno, lascia la Cia di Islamabad senza guida in un momento cruciale e costringe Langley a trovare un sostituto da inviare in Pakistan. In questo gioco, tanto sporco quanto subdolo, anche Islamabad ha le sue buone carte da giocare. Per quanto arrabbiati, indignati e sfiduciati gli americani non possono concedersi il lusso d’abbandonare al proprio destino una potenza nucleare da 170 milioni di abitanti dove il terrorismo islamico gode di appoggi a tutti i livelli.

Perdere totalmente il controllo del Pakistan, non avere più la possibilità di operare sul suo territorio, significherebbe rischiare di non poter intervenire qualora le forze integraliste minacciassero di mettere le mani sulle circa 100 testate nascoste negli arsenali nucleari del paese.

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