Politica

Ode a Scalfari: è la sintesi tra Joyce e Virgilio

Paolo Mauri, su Repubblica, presenta l’ultima iniziativa editoriale del giornale, la pubblicazione in allegato del libro Per l’alto mare aperto di Eugenio Scalfari. Un saggio, secondo Mauri, così robusto da opporsi «alla moda del pensar breve» di certi filosofi «a chilometri zero» che «cercano di venire incontro alle esigenze anche spicciole del quotidiano». Scalfari, solo per caso fondatore di Repubblica, è invece un esempio del «pensare “lungo”» che si misura con «la nascita, l’evoluzione e la fine di un’epoca: la nostra». Un’epoca minacciata dai «barbari» i quali sono già alle porte, anzi sono già qui, appena camuffati come i Visitors. Parlano una lingua diversa, non si fanno capire, «fanno partire la storia dalle loro esperienze e non hanno alcun interesse per condividere la memoria della modernità».
Detta così, sembrerebbe un modo un po’ manicheo di dividere il mondo in due parti, quella illuminata delle élites e quella barbara o imbarbarita del volgo. Eppure, nella paginata di ieri, Scalfari è accostato a vario titolo ai seguenti pensatori: Montaigne, Diderot, Ulisse, Virgilio, D’Alembert, Cervantes, Kundera, Joyce, Baudelaire, Leopardi, Rilke, Proust, Nietzsche, Calvino e Montale. Con alcuni, tipo Diderot, immagina un incontro «a tu per tu»; con tutti stabilisce un «serrato confronto». Nessuna delle opere di Scalfari, però, finora è entrata nel Pantheon degli immortali.
Se la recensione può sembrare sdraiata, è solo perché probabilmente si è persa la memoria di quelle uscite in contemporanea con la pubblicazione del volume in libreria nel maggio dell’anno scorso. Il critico Alberto Asor Rosa su Repubblica aggiungeva al catalogo di cui sopra Pascal, Tocqueville, Spinoza, Marx, Cartesio, Kant, Dostoevskij e Tolstoj. E chiosava il tutto con questo equilibrato giudizio: «le “cime” della modernità sono scalate dal nostro Autore con straordinaria agilità e incredibile capacità comunicativa, che però non diviene mai volgarizzazione pura e semplice».
Il filologo Cesare Segre, sul Corriere, completava il quadro con Proust, Kojève, Fumaroli. Quindi sottolineava che Per l’alto mare aperto «non è un saggio di storia delle idee in senso stretto» bensì un «viaggio letterario e filosofico» e anche «un’opera d’assieme» a «intensità variabile». Gran finale: «Questo libro poteva scivolare verso la trattatistica. Scalfari, che sa abbandonarsi alla vocazione di scrittore, l’ha evitato ricorrendo a un ventaglio d’invenzioni schiettamente narrative». Insomma, un saggio che si legge come un romanzo, come vuole uno stereotipo da quarta di copertina. Neanche Walter Veltroni nei momenti d’oro era riuscito a portare a casa un numero così elevato di paragoni roboanti e accostamenti spericolati. L’ex leader del Partito democratico si è dovuto accontentare di essere avvicinato a Pirandello, Conrad, Tarkovskij, Borges, Chagall, Toulouse-Lautrec, Leopardi, Henry James e Ian McEwan.


Forse a questo mondo imbarbarito, oltre alla filosofia, gioverebbe un po’ di senso della misura.

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