Ogni domenica le migliori opere religiose del Cinquecento

Per quanto mi sforzi, e per quanto abbia visto in tanti anni, alla parola «Rinascimento», prima di Raffaello o intorno a Raffaello, il primo nome che mi vien alla mente è quello di Giorgione, e il primo quadro la Tempesta. Perché fra tanti toscani, fiorentini (ma non dimentichiamo che Raffaello è marchigiano) mi viene in mente un veneziano, anche se alle origini della pittura italiana, ai primo del '300, Venezia è ancora bizantina. E però, dati i primi decenni del '400, avviandosi ai teoremi di Piero della Francesca, il primo pittore della luce e dello spazio, pur naturalizzato fiorentino, si chiama Domenico Veneziano. È inutile: a Venezia c'è sempre un punto di origine, un bagliore di aurora, che scalda i cuori prima che la ragione dia ordine al mondo. E così la Tempesta, con quella sua datazione in apertura di secolo, incerta nelle prime unità, 1503, 1504, 1505, in coincidenza con le prime prove di Raffaello, è il manifesto di una storia, di una storia nuova, concepito da uno dei due Nouveaux Philosophes che trasferiscono i loro pensieri in pittura: Giorgione e Tiziano.
A tal punto ne la Tempesta, il pensiero è ineludibile che nessun dipinto di così pura bellezza e immediata evidenza ha avuto una letteratura critica tanto vasta, e tante interpretazioni, del suo significato ritenuto misterioso, e tuttora incerto: la Fortezza e la Carità, Adamo ed Eva e quanti altri soggetti allegorici che fanno a pugni con l'idillio che è l'atmosfera lirica e poetica nella quale il letteratissimo Giorgione ci trasferisce. Insomma, io ho sempre visto la Tempesta di Giorgione come un equivalente e un'anticipazione dell'Infinito di Leopardi. Per la prima volta ci si pone davanti a un quadro come davanti a un paesaggio, ed è talmente forte questa suggestione, che nessuna allegoria, nessuna interpretazione simbolica potranno prevalere su quello che, a pochi anni dalla invenzione di Giorgione, rimarrà nella memoria di chi il quadro possedeva: quel Gabriele Vendramin presso il quale lo vide nel 1525 Marcantonio Michiel: «El paesetto in tela cum la tempesta cum la cingana et soldato fo de man de Zorzi da Castelfranco».
Colpì Michiel, e certamente non altro gli disse il proprietario, quel lampo nel cielo serotino, quella luce sinistra che rende spettrali le architetture sul fondo. Tutto avviene in un bosco dove hanno trovato diverso rifugio un giovane e una zingara (come devono essere le zingare: non allegorie) con il bambino, protetti dalla calura estiva, ma non dall'imminente tempesta. Tempesta. L'hic et nunc colto dal pittore nel descrivere il suo idillio. Quel paesaggio così assoluto ha qualcosa di iniziale prima che di iniziatico e non può rimandare a interpretazioni complesse, e neppure difficili e misteriose. Sempre più mi convinco che con questo dipinto, Giorgione ha segnato un passaggio d'epoca per indicare la libertà assoluta dell'artista di descrivere non situazioni o storie, e tantomeno concetti, ma stati d'animo. Davanti alla Tempesta si respira letteralmente un'aria nuova, che in qualche modo si trasferirà anche in Raffaello, e proprio nel paesaggio della Madonna di Foligno.

Difficile immaginare che Raffaello abbia visto la Tempesta, ma qualcuno deve avergliela raccontata, o fatto riferimento allo spirito nuovo di Giorgione, in quel momento di estasi visiva, di pura emozione. E così Giorgione, e con lui Tiziano, entrano emotivamente nel momento originale non solo del Rinascimento veneziano, ma di tutto il Rinascimento.

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