È vero, la lotta politica in Italia non è tra governo e opposizione, o addirittura tra destra e sinistra: ma è tra oligarchie e consenso popolare. Non chiamatele élite, per favore, e nemmeno poteri forti. I poteri impotenti, i poteri deboli non sono poteri, e le élite sono il fior fiore di un Paese, sono la classe dirigente, non la classe dominante. Perché quando parlate del ceto politico usate l’espressione negativa di Casta, non senza ragione, per alludere ai suoi privilegi e ai suoi favori, e quando parlate di un’altra oligarchia, quella degli affari più contorno di stampa e propaganda, la definite addirittura aristocrazia? È un’altra casta, con i suoi privilegi, i suoi interessi che divergono da quelli del Paese, i suoi valori che sono dissonanti dal sentire comune, le sue pretese di egemonia che non passano dal vaglio del popolo sovrano. Capisco l’irritazione dei grandi giornali, altoparlanti della casta suddetta, per le parole dure di Brunetta. Capisco pure l’accusa di demagogia e di populismo. Non sbagliano del tutto, mi rendo conto. Ma ci sono due tipi di populismi: uno vuole fuoruscire dalla democrazia, dal voto e dalla libertà, sognando scorciatoie autoritarie e un altro, al contrario, si attacca al voto popolare, alla democrazia e alla libertà per reagire al potere delle oligarchie. In Italia il populismo è nato in reazione all’alleanza tra le caste: quella derivata dal comunismo e dalla sinistra radical, quella imperante nel potere editoriale, culturale e multimediale, e quella di un capitalismo assistito e furbo che da sempre privatizza i profitti e socializza le perdite, evade e taglieggia lo Stato, rileva, magari a prezzi stracciati, imprese e gruppi editoriali, e disegna l’Italia a immagine e somiglianza dei propri interessi. Per dirla col linguaggio del secolo scorso, l’oligarchia che oggi attacca il governo Berlusconi nasce dall’intreccio tra destra economica e sinistra ideologica, di cui molti grandi giornali sono garanti e punti di incontro: perché in quei giornali, ad una proprietà che risponde a quegli assetti di potere corrisponde la guida del giornale nelle mani di un ceto professionale venuto in gran parte da sinistra, dal Sessantotto e dal radicalismo. Quella triplice alleanza, oligarchie economico-finanziarie, intellettuali-mediatiche, politico-manovali, più appendici sindacali e avanguardie giudiziarie, fu a un passo dal conquistare il potere con il crollo di Craxi, della Dc e della Prima Repubblica: poi arrivò un certo Berlusconi e il ’94 sfumò la presa del potere politico ma rimase quella del potere diffuso. Al punto che Berlusconi andò al governo, mandato dal popolo, ma non andò al potere. Che pochi mesi dopo, grazie anche ad alcuni errori del centrodestra, lo sfrattò da Palazzo Chigi con tanto di avviso giudiziario. Quella guerra è proseguita sottotraccia lungo tutto questo tempo, con periodiche emersioni allo scoperto di questa ostilità. Che in tempi di bonaccia sono a livello culturale o civile, e non mancano ambasciatori di frontiera che tentano di stabilire concordati; in tempi di bufera si palesano a livello politico e persino elettorale, con plateali pronunciamenti, come quello celebre di Mieli sul Corriere della sera. A volte trovano autorevoli complicità nei vertici della Confindustria, della Banca d’Italia e di molte banche ora irritate dalle posizioni di Tremonti dalla parte degli italiani contro le speculazioni dei medesimi istituti. Certo, non è una storia solo italiana se già un sociologo americano venuto da sinistra e poi approdato a posizioni populiste, Cristopher Lasch, scrisse nei primi anni Novanta La ribellione delle élite.
Ma da noi la guerra c’è, si combatte ogni giorno, il terreno più vistoso è la stampa e, in generale, la cultura del Paese. Si è acutizzata quest’estate, e non a caso parlammo proprio sul Giornale della caduta degli dei, riferendoci alle suddette oligarchie. A voler individuare il blocco sociale di riferimento delle oligarchie dovremmo dire che non sono più i mitici proletari e gli operai, ma, per esempio, gli insegnanti, più sparsi borghesi, residui sindacali e superstiti dinosauri militanti. Unico intoppo, quella che Flaiano chiamava la trascurabile maggioranza degli italiani, il consenso popolare a questo governo.
Il fine è trasparente: modificare, correggere, fino a sovvertire, l’esito di libere elezioni e del consenso popolare. Si lanciano campagne mediatiche con studiata puntualità e, nei momenti di vuoto, si recitano dei mantra: l’ultimo è Il Declino, un rosario che oligarchie, politici di sinistra e stampa recitano ogni giorno fino a farlo diventare luogo comune, convinzione diffusa. È cominciato il declino di Berlusconi e della sua band, ripetono tutti con tono oracolare. Ci sono segni elettorali, popolari, parlamentari, governativi di questo declino? No, vaghi segni climatici, presagi e maledizioni, passaparola e riti parapsicologici, un po’ come facevano gli aruspici nell’antica Roma e gli jettatori nella vecchia Napoli.
Al governo in carica, tuttavia, non tocca solo denunciare la manovra e non è il caso di abbassare il tono della denuncia in modo greve. Bisogna porsi il problema in chiave politica e culturale. Traduco: bisogna rendere trasparente il conflitto, visibile a occhio nudo e circoscritto ad una sfera politica; non escludendo, laddove è possibile, raggiungere tregue e punti di intesa nell’interesse reciproco e generale. Il problema culturale è invece: si può governare un Paese contro le oligarchie dominanti, o piuttosto non è necessario tentare una strategia di conquista civile e culturale delle posizioni chiave, o quantomeno una presenza bilanciata, che apra alle plurali culture del Paese? Un leader e un popolo non bastano, ci vuole anche una classe dirigente adeguata, ci vogliono élite. Cosa distingue un’élite da un’oligarchia, ovvero una classe dirigente da una classe dominante, come diceva Gramsci? Le classi dirigenti e le élite sono il potere di pochi nell’interesse di molti, le classi dominanti e le oligarchie sono il potere di pochi nell’interesse di pochi. In termini culturali si tratta di compiere il salto di qualità dal populismo al comunitarismo, ovvero da una politica istintiva ed emozionale ad una sensibilità consapevole e una cultura del legame sociale e popolare.
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