Onora il padre (anche se è brigatista)

Nome da torero, madre tedesca, padre guerrigliero. Ci sono infanzie che fin da subito hanno il proprio destino scritto nel passato: tradirlo è un po' morire, ma onorarlo ti condanna a vivere la vita degli altri, mai la tua

Onora il padre (anche se è brigatista)

Un nome da torero, una madre tedesca, un padre guerrigliero. Ci sono infanzie che fin da subito hanno il proprio destino scritto nel passato: tradirlo è un po' morire, ma onorarlo ti condanna a vivere la vita degli altri, mai la tua. Il piccolo Manolo si ritrovava nei pannolini il denaro degli «espropri proletari» dei genitori brigatisti; il ragazzino Manolo vedeva mamma e papà di là dal vetro di un carcere speciale; cresciuto, il giovane Manolo avrebbe dedicato loro un libro: si chiamava La fuga in avanti e come sottotitolo aveva La rivoluzione è un fiore che non muore. Lui fuggiva all’indietro e si ostinava ad amare quei fiori che non aveva colto. A metà Ottocento Ivan Turgenev scrisse Padri e figli e rese celebre la parola «nichilista». Alla generazione idealista, romantica e appassionata della prima parte del secolo vedeva sostituirsi quella scettica, disincantata e crudele di chi non aveva più speranze. I padri guardavano i loro figli e non li riconoscevano, i figli guardavano i loro padri e li odiavano. Nel Novecento sarà la volta delle «famiglie, io vi odio» del gelido e ateo André Gide, delle «famiglie, nido di vipere» del tormentato, cattolico André Mauriac. Se Manolo Morlacchi li ha letti, deve averne sorriso: lui era il figlio di Piero, il brigatista, il nipote di Emilio, il partigiano, una dinastia che era un maso chiuso: tutti comunisti, tutti espulsi dal Pci, sei dei dieci fratelli Morlacchi, gli zii di Manolo, finiti in carcere per banda armata. Era «l’album di famiglia», le vite degli altri in cambio della propria. Nel film Era mio padre, un killer professionista fugge di città in città cercando di proteggere il figlio, testimone involontario di un delitto di mafia e che la mafia, per cui il padre lavora, vuole comunque eliminare. Il bambino è obbediente, educato, silenzioso: intuisce, ma non giudica. Come potrebbe? Quell’assassino è pronto a morire per lui, gli ha sempre voluto bene, non gli farebbe mai del male, sogna per lui un futuro diverso dal proprio... Era suo padre, non è forse sufficiente? Negli anni di piombo del terrorismo, l’intellettuale francese Bernard-Henri Lévy coniò la formula «Papà vota e il figlio spara» a indicare la divaricazione generazionale fra un comunismo che aveva accettato di giocare secondo le regole democratiche e il nuovo corso brigatista. Peccato che l’uso del fucile fosse d’insegnamento paterno, in famiglia fosse di casa. I figli non avevano inventato nulla e la «cessione del bene» era stata una donazione fra vivi. Gli anni della Volante Rossa durarono sino al 1955, l'archivio del Pci rimase a Praga sino alla morte di Stalin, l'Urss fu considerata troppo a lungo la vera patria, la Thule a cui tutti aspiravano. E quanto al terrorismo, il filo leninista era lì, sempre presente, sempre facile a trovarsi. Era un lessico familiare, insomma, il genio terribile di Lenin il quale pensava la lotta politica in termini militari, allievo insieme di Marx e di Clausewitz. Piero, «Pierino», Morlacchi fonda le Brigate rosse con la stessa logica con cui suo padre era andato in montagna. Ha sempre saputo che «la rivoluzione non è un pranzo di gala» e che «quando si abbattono gli alberi, volano le schegge». Manolo nel tempo si è laureato in storia contemporanea, ma non gli è servito a niente. «La storia siamo noi» nel suo caso è una storia di famiglia, è un’appartenenza ideale più che una valutazione dei fatti o una revisione. Importa poco, qui e ora, intendo, in questo articolo, se la fedeltà al padre l’orgoglio con cui ha sempre rivendicato l’esserne figlio, si sia tramutato in qualcosa di più, in un ripercorrerne non solo idealmente le orme... Importa poco, perché Manolo è «Pierino», morto deluso e alcolizzato dieci anni fa e seppellito con tanto di bandiera rossa. Era suo padre, appunto. Ci sono padri che cercano nei figli il riscatto o la conferma di un valore, figli che vedono nei padri una promessa o una minaccia. Léon Daudet era il primogenito di Alphonse, gloria letteraria della Francia repubblicana. Lo ammirava, ma l’ammirazione lo schiacciava e a lungo cercò di fare altro. Divenuto infine scrittore anche lui, invece dell’inarrivabile talento romanzesco paterno, espresse una vena acre di polemista, si fece monarchico e reazionario, intraprese una veemente carriera politica: era antisocialista, antisemita, odiava gli anarchici. Il suo unico figlio maschio, Philippe, un giorno scappò di casa e fu poi ritrovato morto in circostanze mai veramente chiarite.

Ne nacque un caso umano e politico: scrisse la stampa avversaria di Daudet che il ragazzo, in odio alle idee paterne, aveva abbracciato l’anarchia, aveva ricevuto il compito di «giustiziare» quel genitore comunque odiato, si era sparato per la disperazione... Léon si rifiutò sempre di crederlo: no, lo avevano ammazzato gli anarchici e poi gettato il cadavere addosso a lui. Era suo figlio.

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