Un razzismo tira l’altro. La brutta storia di Rosarno rischia di diventare un altro capitolo per dannare il Sud all’inferno. Non accodiamoci per favore alla caccia al sud promossa sulle fasce laterali da Bocca, versante piemontese, e Stella, versante veneto, e come centravanti di sfondamento il leghismo viscerale lombardo. Non c’è una ragione etnica dietro la pagina bestiale di Rosarno, non è colpa del sud. C’è la guerra tra poveri che scoppia ovunque, c’è l’egoismo tribale che prospera al sud come al nord, c’è la paura del diverso che prende più al nord che al sud, c’è lo scarso senso civico che prevale al sud rispetto al nord, c’è la chiusura nel proprio guscio di benessere che predomina nel ricco nord più che nel povero sud e c’è la malavita organizzata che domina in molto sud e poco nord. C’è lo sfruttamento dei clandestini, al nord come al sud, ma i parametri economici sono rapportati alle condizioni di vita e ai livelli economici a cui si riferiscono. E c’è l’inefficienza delle istituzioni, locali e centrali, la scarsa presenza dello Stato, che si vede di più al sud perché più fragile è l’assetto civico e più esposto perché più bisognoso.
I meridionali sono più impulsivi sia nell’offrire l’ospitalità e aprire le loro case, i loro paesi, la loro vita agli stranieri; sia nel passare dall’insofferenza all’ostilità, dalla chiusura all’aggressività. Ma se Rosarno o Casalprincipe sono impensabili al nord, impensabile è pure l’accoglienza di Riace, della Basilicata o della Puglia intera verso i clandestini, la convivenza con gli albanesi e i romeni nel sud intero, l’integrazione dei maghrebini a Mazara del Vallo e in larga parte della Sicilia, il calore napoletano o palermitano verso i poveracci del terzo mondo, certamente più flebile a Torino e Verona, Bologna e Milano. No, il sud non è Rosarno e non è nemmeno la Calabria. È un pluriverso di contraddizioni, di alti e bassi, di generosità e ferocia, di senso comunitario e chiusure tribali. La gente di mare in generale è più aperta e ospitale e il sud è tutto immerso nel mare, più del nord; senza nulla togliere alla malavita napoletana o tarantina, il peggio avviene nell’entroterra, nel cuore duro della Sicilia, nell’entroterra ruvido della Calabria e della Campania, vegliato da ’nrangheta, camorra e mafia.
Il ricordo troppo recente dell’emigrazione dal sud, la persistenza di una fuga anche se di livello più alto dal sud odierno, rendono il meridionale più comprensivo per ragioni biografiche nei confronti dei cafoni che vengono dal sud del pianeta. Sembrano i loro parenti poveri, i loro zii e nonni, la versione in bianco e nero del loro passato, il remake delle foto della loro infanzia. Le società più povere hanno meno terrore di perdere il loro standard di vita e hanno meno paura dell’homeless; la gente che per clima, tradizione e indole va più in giro, è meno preoccupata dall’insicurezza delle strade per la criminalità.
Ma soprattutto un dubbio vorrei insinuare a lorsignori. Che le pagine nere scritte da gente meridionale non derivino, come spesso si lascia intendere, dalla natura arcaica e inestirpabile della brutta razza meridionale. Ma provengano in larga parte dalla brutta modernità costruita a sud, tra abusivismo e quartieri da schifo, cattedrali nel deserto e insediamenti eco-rovinosi, egoismi recenti e modelli televisivi e consumistici non veicolati certo dal sud. Insomma, molti dei mali che vengono considerati endemici, ed atavici del sud, sono in realtà derivati dagli scompensi e le contraddizioni della modernità calata al sud dall’alto e dall’esterno, o assimilata al sud dai ceti più furbi e cinici. C’è perfino, sottotraccia, un rozzo leghismo d’importazione che serpeggia a Mezzogiorno.
Il sud che viveva per strada era più aperto e disponibile; è il sud chiuso negli abitacoli delle auto, barricato nelle case a vedere la tv o adorare i feticci del benessere, ad avere più diffidenza verso gli stranieri. Persino la criminalità organizzata è cresciuta ed è peggiorata con la modernizzazione barbara del sud, anziché attenuarsi. È cresciuta non con il familismo meridionale ma al contrario, con il collasso del reticolo famigliare; si è allargata non con il tessuto religioso e superstizioso arcaico ma con il suo declino, fastoso o miserabile. Il sud ha perso il suo antico sistema immunitario, le sue compensazioni culturali e naturali, i suoi contrappesi.
Tutto quel che dico, lo confesso con spietata onestà, dipende anche dall’amore per la terra mia, per la gente mia, per le radici terrone da cui provengo. Sono pur sempre figlio del sud e autore di libri sul sud. Ma, credetemi, quel che dico non dipende solo da quello; deriva anche dal fatto che conosco bene il mio sud, giro, confronto, vedo e vivo il sud, il centro e il nord, vedo e paragono molti nord e moltissimi sud del mondo. Il primo passo non è quello di smobilitare il sud, di scaricarlo all’Africa, di separarsi. E nemmeno quello di promuovere una secessione interna, un'emigrazione interiore, nei meridionali salvabili.
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