Se non ci si riesce con le buone, proviamoci con le cattive. Dopo avere rifiutato per dieci giorni ogni ipotesi di boicottaggio delle Olimpiadi di Pechino per punire la Cina della repressione in Tibet, i governi occidentali cominciano ad avere qualche cauto ripensamento. Mentre Bush ha confermato ancora ieri lintenzione di presenziare alla cerimonia inaugurale, Sarkozy - cui è sempre piaciuto fare la mosca cocchiera - ha detto che deciderà in base agli eventi; e anche da altre capitali arrivano segnali che, se i cinesi continuassero a usare il pugno di ferro contro i dimostranti, a lanciare accuse insensate contro il Dalai Lama e la stampa occidentale e a negare laccesso al Tibet ai giornalisti, qualcosa bisognerà pur fare.
Lo richiede lopinione pubblica, che stando a diversi sondaggi on line sarebbe in maggioranza favorevole a disertare i Giochi, e lo richiede anche lopportunità di non dimostrarsi troppo arrendevoli di fronte a un regime che, chiuso nella sua torre davorio e convinto di avere il coltello per il manico, si ostina a ignorare i pur insistenti inviti al dialogo e alla moderazione.
La decisione è molto delicata, perché la Cina non mancherebbe di reagire a uno schiaffo. Pertanto, tra il subire senza reagire la protervia cinese in nome della realpolitik e un doloroso «tutti a casa» che frustrerebbe le speranze di migliaia di atleti, sembra farsi strada lipotesi di una Terza via: salviamo levento sportivo che coinvolge anche enormi interessi economici, ma neghiamo alla Cina quella consacrazione internazionale cui ambisce (un po come Hitler nel 36) rinunciando a inviare a Pechino le delegazioni politiche di altissimo livello oggi in programma.
Potrebbe essere una soluzione, ma a due condizioni difficilmente realizzabili: che tutti i maggiori Paesi procedano di conserva e che si abbia la ragionevole certezza che questo semiboicottaggio non provochi una crisi internazionale: la Cina, infatti, ha molte possibilità di ritorsione, e lo stato delleconomia mondiale consiglia di non scherzare col fuoco.
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