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Sci: Sofia Goggia trionfa nel supergigante di Beaver Creek
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Ora vi spiego il vero Carver, fragile e violento

A Stanford eravamo diventati amici di \ Max Crawford. Non passò molto tempo prima che anche Max facesse il suo viaggio inaugurale nel Montana e iniziasse a fare comunella con tutte quei bravi vecchi ragazzi tipo James Crumley. Max era del Texas, così quando quei ragazzi del Montana lo presero fra loro, stavano prendendo qualcuno che poteva restituire loro pan per focaccia. Egli era un socialista, e i suoi romanzi si occupavano di libertà e di equità sociale per la classe operaia.
Una volta ci venne a trovare e disse a Ray che era incredibile che i suoi racconti avessero come protagonisti un gruppo di persone che normalmente non avevano alcun ruolo nella finzione letteraria. «Non hai idea, amico» gli disse Max «di quello che stai facendo per la narrativa americana. I lavoratori poveri, i disoccupati, gli anonimi operai; le loro preoccupazioni e le loro vite sono tutti messi a nudo nella tua narrativa».
Ray aveva guardato Max con aria assente e perplessa. Lui non faceva alcuna indagine sociologica oltre che su se stesso. Scriveva della sua gente e delle vite che conducevano, scriveva quello che sapeva. Oppure era il racconto stesso a venire da lui. Ray non usò mai gli occhiali della politica per vedere le cose.
Durante un’altra visita, Max mi disse: «Sai, Ray ti sta facendo diventare pazza focalizzando la tua attenzione su lui e le altre donne. Questo è tutto quello che gli ci vuole. Distrarti così tanto che tu non possa fare assolutamente nulla per quanto riguarda i problemi reali. Sei troppo impegnata a sbattere la testa contro il muro per via di qualche donna che non significa niente per lui, in confronto a te e la sua bottiglia».
Mentre rimuginavo su questa sua osservazione, ero di nuovo nel parcheggio del centro di disintossicazione e un’infermiera venne fuori gridando: «Signora Carver! Signora Carver!». Quando mi girai per risponderle, mi disse: «Venga presto! Suo marito ha avuto un attacco».
Il personale era riuscito a salvarlo. Ma lui era caduto e si era procurato un taglio alla fronte così brutto che ci vollero i punti di sutura. Dopo che Ray si fu ristabilito, un medico ci portò entrambi in un ufficio privato.
«Figlio mio, non puoi più bere», gli disse il medico. Era un uomo molto anziano, un medico coi capelli tutti bianchi che si comportava in modo paterno. «Come si dice nel gergo, hai raggiunto la misura. E una volta che hai raggiunto la misura, quello che ti è capitato adesso è facile che ti capiti altre volte. \ Potresti diventare come quegli ubriaconi che hanno il cervello danneggiato per sempre. E che hanno perso la capacità di essere persone umane pensanti».
Con questa sentenza che ci risuonava ancora nelle orecchie, si concluse il primo tentativo di disintossicazione di Ray. Non sarebbe stato l’ultimo; e non sarebbe stata l’ultima volta in cui lui sarebbe finito in un ospedale. Sorpresa, sorpresa - erano rimasti ancora altri livelli di auto-denigrazione. Ma al momento io nero più concentrata a pensare a qualche modo per disdire la festa programmata. Il problema era che c’erano ospiti che arrivavano da ogni parte, e io non avevo tutti i loro numeri. Dovevo affrontare la situazione così com’era. Lo spettacolo doveva continuare, quella sera. \
Non credo che io e Ray, da allora, parlammo mai spontaneamente in pubblico. Le osservazioni che mi rivolgeva avevano un che di condiscendente, oppure erano gelidamente civili. Era come se dovesse dimostrare le sue ragioni.

Ray prese la sua bottiglia e me la ruppe sulla testa.
Non ricordo precisamente che cosa accadde, ma suppongo di avergli detto: «Adesso nel letto di chi ti vuoi infilare?» eravamo a cena dai Kinder a San Francisco. Era il luglio del ’75, la nostra prima tappa sulla strada per Washington, un viaggio verso luoghi familiari, io e lui da soli. Avevamo lasciato i bambini dalla mamma di Ray.
Personalmente avrei preferito essere morta piuttosto che passare un’altra serata dai Kinder, sebbene Chuck fosse umano e divertente e mi piacesse. Era pura follia invitarci, ma faceva parte del titillamento. Diane una volta aveva detto: «Ray, finiremo per essere tutti spinti oltre il limite da questi giochi e da questi divertimenti».
Ci aveva preso.
I Kinder erano al centro della scena letteraria di San Francisco. Prima che andassimo da loro, Ray promise che si sarebbe comportato bene. Questo accadde prima che l’esplosiva combinazione di personalità tanto forti e un fiume di alcol travolgessero tutto.
Bum! Fu come se andassi in corto circuito. Quando rinvenni, ero coperta di sangue. Vidi che un’arteria vicino al mio orecchio schizzava fuori fiotti di sangue. Implorante ma decisa riuscii a dire «Datemi... un medico». Qualcuno alla fine si era deciso a chiamare l’ambulanza - credo fosse Diane. Mentre mi ricoveravano d’urgenza al reparto chirurgia dell’ospedale, avevo perso quasi il 60 per cento del mio sangue. Venne anche un prete e mi fece l’estrema unzione.

La mattina seguente, mi svegliai affamata dentro un letto d’ospedale. Ero viva. Ero debole. Ero sveglia. Potevo essere rilasciata, mi dissero. Ma non volevo andare a casa a Cupertino, dove la madre di Ray stava badando ai bambini. Non volevo vedere nessuno - a parte Ray. Oh sì, ero sicura che quando lui avesse visto esattamente che cosa aveva fatto, sarebbe stato così preso dal rimorso da cambiare per sempre. Chiesi aiuto a Jody Luck, una mia collega di liceo, che fu carina con me. Accettò di venirmi a prendere, e da lei riuscii a riprendermi un po’.
Non mi trattenni a lungo però. Quando parlai con Ray, lui era dispiaciuto e silenzioso - e si diresse verso nord per raggiungerci. Quando me ne andai, per raggiungere Ray in un motel a Palo Alto, la mia collega non volle più parlarmi. Non importò quante volte ci incontrassimo nei saloni della scuola o, inavvertitamente, ci sedessimo l’una vicina all’altra alle riunioni per insegnanti. Lei mi volgeva freddamente le spalle per farmi capire quello che pensava della mia «riconciliazione» e della mia vita ingestibile.
Che cosa avrei potuto dirle?
È li che sei diretto. Non puoi spiegare perché. Non puoi spiegarlo nemmeno a te stessa. È la tua vita, anche se la storia della tua vita ha smesso di avere senso. Le piccole assurdità sono fuori controllo, non sono più qualcosa di cui puoi sorridere per un minuto quando sei ferma davanti a un semaforo lento, o mentre stai finendo di bere una tazza di caffè, o mentre guardi un bambino che si addormenta. Ciò che credevi essere certo, non lo è più. Ciò che era chiaro, è diventato nebuloso. Avevo attraversato lo specchio. La vita in cui mi ritrovavo era quella sbagliata, non quella che avevo sognato o pianificato, o lavorato così duro per ottenere.
Ciò che dovevo fare era riportare la realtà attorno a me, fare le cose giuste, rimettere la mia vita con Ray sui binari. Questo è ciò che io credevo. Perché dovevo. Sì, dovevo. Non è un atteggiamento molto trendy, no? Credo che sappia un po’ di idealismo romantico e senso femminile del sacrificio. E così sia, dunque. \
Ma io sono la «Maryann» che puoi trovare nella poesia di Ray. Io sono anche in alcune delle donne dei suoi racconti. Io sono stata una fonte di ispirazione per Ray, quando lui fantasiosamente rimescola episodi delle nostre vite nei suoi versi e nella sua prosa.

Ero la cassa di risonanza che conosceva i suoi amici, tutta la sua famiglia, e la brillantezza dell’uomo - molto prima che lui fosse il noto autore di qualcuno. Non ci si dimentica di qualcuno insieme a cui si è passato un momento difficile. E questo è quello che è capitato a noi.

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