Cultura e Spettacoli

Orgoglio bianco fra cappelli Stetson e stivali a punta

Se si facesse un sondaggio tra il pubblico italiano per stabilire qual è il genere musicale moderno preferito, probabilmente il rock la farebbe da padrone ma, senza dubbio, il country risulterebbe la forma più detestata. Quando si parla di country music, l’ascoltatore italiano medio storce il naso, convinto che ci si stia riferendo a una musica adatta al massimo a fare da commento alle bastardate dell’ormai sbiadito JR della serie Dallas. Country è universalmente sinonimo di cappelli Stetson e stivali a punta, cowboy e contadini rozzi e retrogradi, localini da film americano di serie B e rodeo.
Un po’ di vero c’è, ma solo un po’. Tanto per cominciare, quello che noi chiamiamo country in America è definito country & western, perché è una musica che trae fondamento dai valori della provincia rurale e dalle canzoni da cerchio intorno al fuoco che i pionieri si portarono appresso nella corsa al mitico ovest. È una musica essenzialmente bianca, che si nutre tuttora delle ballate di derivazione celtica, delle gighe irlandesi e di ritmi quasi mutuati dal boogie e dallo swing. È difficile immaginare un ragazzino di un ghetto nero che ascolti country. Ma quel ragazzino non ascolterà nemmeno jazz o blues, considerate espressioni da vecchi e quasi da borghesi, ma solo gangsta rap o hip-hop molto duro. Musica che difficilmente ascolterà un figlio di vaccai del Midwest.
Ancor oggi, la country music sventola il vessillo del patriottismo a stelle e strisce e può in un certo senso essere tacciata di retorica Wasp (White anglo-saxon protestant, ovvero Protestanti bianchi anglo-sassoni), fortemente conservatrice, ultranazionalistica, fondamentalista protestante, bigotta e razzista. Ma questi hillbillies sono davvero così cattivi? Per hillbilly si intende un contadino dal basso livello culturale, dalle abitudini poco raffinate, dal caratteristico dialetto molto ritmico e dall’amore per la musica country e la natura. Oggi Nashville è sinonimo di country, come ci ha mostrato con intenti piuttosto polemici Robert Altman nell’omonimo film, ma il vecchio country più che in Tennessee è nato in Kentucky, terra di boschi e monti, patria del bluegrass. È tra i verdi contrafforti degli Appalachi che ha preso corpo una musica antica, fatta di violini, banjo, mandolini e chitarre acustiche, a condire armonie vocali che ancor oggi serpeggiano in quasi tutta la musica americana.
Ma c’è anche un country più moderno, più elettrico, fatto di violini, fiati e pedal steel, che saltella su ritmi due-quarti da rodeo. Non può che essere il country del Texas, o western-swing, secondo alcuni, proprio perché il suo maggiore rappresentante, Bob Wills con i suoi Texas Playboys, sta a Glenn Miller come West side story di Leonard Bernstein sta alla musica classica. Ma allora perché l’italiano detesta la country music? Forse perché per anni non ha sentito che Dolly Parton e Kenny Rogers, e per giunta nelle loro versioni meno interessanti. Ma ci sono anche il lirismo intenso di Willie Nelson, il misticismo burbero di Johnny Cash, lo humour nero di Lyle Lovett (noto ai più come ex marito di Julia Roberts), il nazionalismo tronfio ma vero di Merle Haggard, il lamento antimilitarista di Steve Earle, la fama miliardaria di Garth Brooks, capace di richiamare più di mezzo milione di fan a un concerto al Central park di New York.

E nel passato ci sono state figure quasi mitiche: la Carter Family, Jimmy Rodgers, Hank Williams (uno dei primi poeti maledetti della musica americana, morto di eccessi in giovanissima età), Bill Monroe (padre del bluegrass, cristiano devoto che, pur di non macchiarsi di alcuna colpa al cospetto dell’Altissimo, menava la moglie a colpi di Bibbia!), Patsy Cline, persino Charlie Pride (l’unica star nera del country).

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